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di Rossella Gemma

È online sul sito di Cittadinanzattiva la guida “Covid, Long Covid e fragilità: Teniamo alta l’attenzione!” pubblicata all’interno del programma “BE A.W.A.R.E” (Be Active citizens for Widespread Awareness, infoRmation and Education). 

Informare e accrescere la conoscenza e la consapevolezza della popolazione sui rischi di sviluppare forme severe di COVID-19, in particolare per le persone con fragilità o con specifiche condizioni di salute: questo l’obiettivo della guida messa a punto da Cittadinanzattiva, disponibile anche in lingua inglese, e che contiene la lista dei 113 ambulatori territoriali per il trattamento del long Covid, i riferimenti per la tutela, e informazioni aggiornate su: fine pandemia e “nuova normalità”, il “long Covid”, il punto sulla vaccinazione anti Covid-19, l’impatto della malattia sui pazienti fragili, i fattori di rischio e la profilassi, la vaccinazione anti Covid-19 in gravidanza, allattamento e in età pediatrica.  

“A questo programma, la Società Italiana di Pneumologia – Italian Respiratory Society SIP/IRS ha partecipato attivamente ai tavoli – spiega il professor Angelo Guido Corsico, direttore dell’UO Pneumologia Policlinico di San Matteo Università di Pavia -. Assieme a diversi esponenti della Comunità e delle Società scientifiche abbiamo messo a punto questo opuscolo per mantenere alta l’attenzione della cittadinanza e, soprattutto, delle persone fragili che sono ancora a rischio. Anche se oggi il panorama in acuzie e in post covid è profondamente cambiato rispetto al 2020, grazie alla vaccinazione di massa che è stata eseguita, tuttavia il virus, però, è ancora presente – prosegue il professore -. In soggetti affetti da patologie polmonari croniche (come BPCO, discrasia polmonare, enfisema, malattie polmonari interstiziali, embolia polmonare, asma grave, ipertensione polmonare, etc.) l’infezione può aggravare una situazione respiratoria e potenzialmente può lasciare degli strascichi dannosi”. 

Il progetto di Cittadinanzattiva vuol essere dunque, da una parte, uno strumento informativo per queste persone affinché non abbassino il livello di attenzione e prevenzione rispetto al Covid; dall’altra, rappresenta un pungolo affinché il Servizio Sanitario Nazionale non si dimentichi della salute respiratoria ora che è passata l’emergenza pandemica. 

Anzi, “ora che gli ambulatori Covid sono stati chiusi e che l’attenzione è rivolta a recuperare il gap diagnostico accumulato, sarebbe opportuno destinare in anticipo risorse e medici pneumologi per presidiare la salute dei pazienti fragili, ed evitare che possano verificarsi nuove ma già vissute condizioni di emergenza sanitaria”. 

Più in generale, è il ruolo della pneumologia in Italia a dover essere preso in esame. “Le malattie respiratorie sono uno dei principali problemi sanitari mondiali e causano un sesto di tutte le morti. In Italia, la salute respiratoria sta peggiorando, molto probabilmente per effetto dell’inquinamento atmosferico, con una crescita di asma, rinite allergica, infezioni respiratorie e broncopatie. Ma – sottolinea Corsico – dopo la centralità riconosciuta ai pneumologi durante la pandemia, la disciplina è scesa nella lista delle priorità. Il nuovo tariffario nazionale per le prestazioni ambulatoriali prevede infatti un drastico ribasso, anche del 30/40%, per le visite e gli esami pneumologici. Per esempio, un importante esame come l’emogasanalisi – prelievo di sangue arterioso che serve a misurare la quantità di ossigeno presente nel sangue e che necessita di una siringa speciale – oggi è valutato 7 euro contro i 14 di prima”. 

“A fronte di questi tagli lineari - conclude il professore – sarà sempre più difficile, anche per le Regioni, conciliare il bisogno di cura con gli obiettivi di bilancio”. 

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di Rossella Gemma

Migliorano la qualità dell’assistenza e gli outcome di salute delle persone con diabete tipo 2 assistite nei centri diabetologici italiani: degli oltre 500mila pazienti monitorati ogni anno attraverso l’iniziativa Annali AMD, l’analisi dell’andamento dei fattori di rischio ha evidenziato che più della metà (54,6%) ha valori di emoglobina glicata a target (Hb1Ac £7%), il 23% ha buoni valori di pressione arteriosa (<130/80 mmHg) e il 34,3% di colesterolo LDL (<70 mg/dl). Bene l’accesso alle cure farmacologiche più innovative: rispetto alla precedente rilevazione Annali AMD, cresce la quota di pazienti in trattamento con SGLT2i dal 9,5% al 29%; dal 5,8% al 27,5% con GLP1-RA.

È questa la fotografia scattata dagli Annali AMD 2022, l’estrazione periodica realizzata dall’Associazione Medici Diabetologi (AMD) che dal 2006 consente di monitorare l’andamento dell’assistenza erogata alla popolazione con diabete in Italia. Quest’anno la rilevazione ha coinvolto 295 centri di diabetologia – pari ad un terzo del totale nazionale – e complessivamente più di 500mila persone con diabete tipo 2, 37mila con diabete tipo 1 e, per la prima volta, 11mila donne con diabete gestazionale (GDM).

I risultati sul diabete tipo 2 sono stati oggetto di una pubblicazione su ‘Diabetes Research & Clinical Practice’, rivista scientifica di rilevanza internazionale, che ha sottolineato la validità scientifica e metodologica della misurazione. In generale, si evidenzia un progressivo e continuo miglioramento della qualità delle cure erogate nel nostro paese. Aspetto questo particolarmente rilevante dal momento che gli standard e i parametri di riferimento utilizzati per la misurazione sono diventati molto più stringenti, in accordo con le linee guida internazionali.

Di particolare rilevanza il dato sull’accesso ai farmaci innovativi, gli SGLT2i e GLP1-RA, dalla comprovata efficacia in termini di riduzione del rischio cardiovascolare e renale. Si riduce inoltre la prescrizione e l’utilizzo di sulfaniluree e secretagoghi; mentre il farmaco più prescritto resta la metformina (72%)” – dichiara Giuseppina Russo, coordinatrice del Gruppo Annali AMD. “Possiamo quindi affermare che la comunità diabetologica italiana ha intrapreso un percorso sempre più diretto a contrastare l’inerzia terapeutica. I medici prescrivono con maggiore favore i cosiddetti farmaci innovativi che supportano medici e pazienti a ridurre l’impatto delle complicanze cardio-renali nelle persone con diabete non controllato a beneficio della loro salute e qualità di vita con la malattia”.  

Il progressivo miglioramento delle cure e trattamenti erogati nei centri diabetologici monitorati dagli Annali AMD emerge anche guardando i risultati del Q-score, l’indice che misura la qualità dell’assistenza. Infatti, più del 60% delle persone con diabete tipo 2 ha un Q-score >25 che corrisponde ad un adeguato livello di assistenza con benefici diretti sulla salute complessiva e sulla riduzione delle complicanze per i fattori di rischio.

Siamo davvero molto orgogliosi che il lavoro degli Annali abbia ricevuto il giusto riconoscimento con la pubblicazione su ‘Diabetes Research & Clinical Practice’”, dichiara Graziano Di Cianni, Presidente Nazionale dell’Associazione Medici Diabetologi. “Dal 2006 gli Annali AMD ci danno la possibilità di toccare con mano i risultati delle attività che quotidianamente svolgiamo sul territorio e anche di orientare le strategie terapeutiche grazie all’implementazione dei dati con l’Intelligenza Artificiale e il machine learning. Il lento, ma progressivo miglioramento dei parametri, l’incremento dell’utilizzo dei farmaci innovativi e la migliore qualità di vita sono elementi che ci rendono particolarmente soddisfatti. Allo stesso tempo - conclude Di Cianni – è necessario fare un ulteriore sforzo per migliorare l’aderenza alle terapie e ridurre ancora di più il rischio cardiovascolare, che rappresenta la prima causa di morte nelle persone con diabete”.

L’articolo pubblicato su Diabetes Research & Clinical Practice è scaricabile a questo link

 

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di Rossella Gemma

Gli infarti gravi e fatali sono più comuni di lunedì. A inizio settimana, infatti, il rischio di subire un attacco cardiaco letale è superiore del 13% rispetto al previsto. Lo dimostra una ricerca irlandese appena uscita. Lo studio è stato condotto dai medici del Belfast Health and Social Care Trust e del Royal College of Surgeons in Irlanda, e appena presentata dalla British Cardiovascular Society (BCS), i quali hanno analizzato i dati di 10.528 pazienti ricoverati in ospedale tra il 2013 e il 2018 con il tipo più grave di infarto: un infarto del miocardio con sopra-slivellamento del segmento ST (STEMI) che si verifica quando un'arteria coronaria principale è completamente bloccata. 

“I ricercatori hanno riscontrato un picco di infarti STEMI all'inizio della settimana lavorativa, con una maggiore incidenza il lunedì – commenta Giovanni Esposito, professore di cardiologia alla Federico II di Napoli e presidente nazionale GISE –. Un dato che possiamo riscontrare anche in Italia, peraltro. In precedenti studi è stato evidenziato che a giocare un ruolo determinante sarebbe il ritmo circadiano, che regola il ciclo del sonno e della veglia. In effetti, a inizio settimana tendono ad associarsi tre importanti fattori di rischio cardiovascolare strettamente legati al ritmo circadiano: carenza di sonno, orari 'sballati' e stress di inizio settimana. Si tratta di una sorta di jetlag sociale, che va ad aumentare il rischio infarto nei soggetti più vulnerabili”. 
Insomma, al lunedì è facile che ‘sballino’ i cosiddetti orologi biologici periferici presenti in quasi tutti gli organi, cuore compreso. Lo spesso diverso stile di vita del fine settimana, frequente non solo nei più giovani, inoltre, può portare un incremento della pressione o degli zuccheri e lipidi nel sangue. “Ridurre questo rischio non è così difficile – aggiunge Esposito –: rispettare le buone regole di vita quotidiana, alimentari e di attività fisica, assumere l e terapie corrette agli orari appropriati, e magari prendere l'inizio della giornata e della settimana con calma, cercando di ridurre almeno lo stress”.
Un aumento degli accessi per infarto potenzialmente letale rende fondamentale che la ricerca continui a far luce su come e perché si verifica questo fenomeno. “Questo studio – conclude il presidente GISE – si aggiunge alle già numerose evidenze sulla tempistica degli attacchi di cuore particolarmente gravi, ma ora dobbiamo comprendere meglio quali siano i fattori che rendono determinati giorni della settimana più a rischio. Questo potrebbe aiutare i medici a mettere in atto strategie e approcci di intervento in grado salvare più vite in futuro”.

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di Rossella Gemma

Microplastiche nel seme umano. Un ulteriore minaccia per la specie umana”. Lo studio in preprint sulla Rivista Internazionale Science of the Total Environment (http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4457596) indica quanto l’emergenza microplastiche sia sempre più pericolosa per la riproduzione della nostra specie che, peraltro, segna sempre più record negativi, in particolare proprio sul versante maschile.

Lo studio rientra nell’ambito delle attività del progetto EcoFoodFertility, prima ricerca al mondo multicentrica di biomonitoraggio umano sul rapporto Ambiente, Alimentazione e Salute Riproduttiva che da tempo indaga in diverse aree ad alto rischio ambientale la presenza dei contaminanti ed i loro effetti sulla salute umana a partire proprio dalla  valutazione del Seme umano come “Sentinella” della Salute Ambientale e Generale.

Lo studio, presentato in anteprima al Congresso della S.I.R.U. - Società Italiana della Riproduzione Umana - è stato guidato dal dott. Luigi Montano, UroAndrologo dell’ASL Salerno, coordinatore di EcoFoodFertility, nonché Past President della Società Italiana della Riproduzione, in collaborazione con i gruppidi ricerca della Prof.ssa Oriana Motta dell'Università degli Studi di Salerno, Prof.ssa Marina Piscopo, dell’Università Federico II e Prof.ssa Elisabetta Giorgini dell’Università Politecnica delle Marche. La Dott.ssa Valentina Notarstefano ha identificato e caratterizzato tramite l’utilizzo della Microspettroscopia Raman, strumentazione in dotazione presso il Dipartimento di Scienze della Vita e dell'Ambiente dell’Università  Politecnica delle Marche, micro particelle di plastica in 6 su 10 campioni di liquido seminale di uomini sani, non fumatori residenti in un’area ad alto impatto ambientale della Campania. Già a gennaio 2023, sulla rivista Toxics (https://doi.org/10.3390/toxics11010040), lo stesso gruppo aveva individuato per la prima volta microplastiche in urine di residenti dell’area nord di Napoli e Salerno. Sono stati identificati in termini di forma, colore 16 frammenti di microplastiche delle dimensioni da 2 a 6 micron, ossia  più piccoli di un granellino di pulviscolo.

L’esatta composizione chimica delle microplastiche ritrovate nello sperma umano di questo studio fa riferimento a polipropilene (PP), polietilene (PE), polietilene tereftalato (PET), polistirene (PS), polivinilcloruro (PVC), policarbonato (PC), poliossimetilene (POM) e  materiale acrilico.  

“L’origine di questi frammenti potrebbe essere varia e può comprendere cosmetici, detergenti, dentifrici, creme per il viso e il corpo, adesivi, bevande, cibi o anche particelle areodisperse nell’ambiente, per cui le vie di ingresso nell’organismo umano possono avvenire attraverso l'alimentazione, la respirazione ed anche la via cutanea” spiegano Oriana Motta,Maria Ricciardi ed Elisabetta Giorgini.

“Le vie più probabili di passaggio al seme umano sembrerebbero avvenire dall’epididimo e dalle vescicole seminali, strutture più facilmente suscettibili a processi infiammatori che possono favorire la maggiore permeabilità, ma anche per alterazioni importanti della barriera ematotesticolare” commentano Luigi Montano,  Marina Piscopo e Tiziana Notari.

Si è notato anche una presenza maggiore di microplastiche in relazione alla più scarsa qualità seminale, che però necessita di ulteriori e successivi approfondimenti, considerando peraltro che le stesse microplastiche fanno da cavallo di Troia per altri tipi di contaminanti ambientali che legandosi ad esse procurano ulteriori danni all’interno agli organi riproduttivi, particolarmente sensibili agli inquinanti chimici.

“Si stanno continuando ad indagare altre matrici umane che, se confermate negli esperimenti in corso, rappresenterebbero una dimostrazione di quanto la contaminazione della plastica sia da considerare un’emergenza da affrontare nell’immediato; averle già trovate in una matrice così sensibile per la conservazione e l’integrità del nostro patrimonio trasmissibile di certo non è una notizia confortante, è a rischio il futuro della nostra specie oggi più che mai minacciata nella sua essenza”, conclude Montano.

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di Rossella Gemma

Sabato 27 maggio si celebra la Giornata Nazionale del Mal Di Testa promossa dalla SIN (Società Italiana di Neurologia) e dalla SISC (Società Italiana per lo Studio delle Cefalee), per sensibilizzare la popolazione su questa patologia che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, colpisce 1 persona su 2 con episodi che si verificano almeno una volta l’anno. Si tratta di una patologia che riguarda anche i più giovani: basti pensare che oltre il 40% dei ragazzi è colpito da cefalea mentre 10 bambini su 100 soffrono di emicrania, una forma comune di cefalea primaria.

In occasione della Giornata, SIN e SISC fanno il punto sui progressi della ricerca scientifica in ambito diagnostico e terapeutico, nonché sui nuovi decreti attuativi della legge 81/2020 che ha riconosciuto l’emicrania cronica come malattia sociale.

Inoltre, sui canali social Facebook, Instagram e Twitter delle due Società verranno pubblicati video divulgativi sulle principali curiosità legate al mal testa, realizzati in collaborazione con gli esperti che si occupano di questa malattia. Alcuni video prenderanno spunto dalle domande che sono arrivate direttamente dagli utenti tramite i social o via email.

“In Italia il 12% della popolazione adulta soffre di emicrania, una forma di cefalea che si caratterizza per un dolore pulsante con intensità moderata-severa che, spesso, si localizza nella metà della testa e del volto – spiega il Prof. Alfredo Berardelli Presidente della SIN –  Una realtà che riguarda  6 milioni di persone nel nostro Paese che si trovano a convivere con una patologia talmente debilitante che è stata indicata dall’OMS come causa di maggiore disabilità nella fascia di età tra 20 e 50 anni, ossia nel momento della vita in cui siamo più produttivi”. 

Fortunatamente, grazie alla scoperta del meccanismo che genera il dolore emicranico, sono ormai entrate nella pratica clinica nuove terapie a base di anticorpi monoclonali che stanno facendo registrare un importante cambio di passo nella prevenzione dell’emicrania poiché queste terapie riducono il numero di attacchi nella forma episodica risultando efficaci anche nell’emicrania cronica e in quella farmacoresistente.  A fronte di tutti questi benefici, inoltre, il numero di effetti collaterali è molto scarso.

La più recente novità riguarda i pazienti con emicrania cronica che è stata riconosciuta come “malattia sociale” dalla legge 18/2020.

“I decreti attuativi della legge 18/2020 emanati dal Ministero della Salute  – commenta il Prof. Franco Granella, Presidente della SISC – prevedono finanziamenti pari 10 milioni di euro, per il 2023 e il 2024, con l’obiettivo di realizzare progetti regionali per la sperimentazione di metodi innovativi di presa in carico dei pazienti. Entro la fine dell’anno le varie strutture sanitarie dovranno presentare alla rispettiva Regione le loro proposte progettuali per ottenere i finanziamenti e la SISC sta cercando di aiutarle mettendo a punto procedure e format che possano favorire gli operatori nella realizzazione delle loro proposte.

Esistono due grandi categorie: le cefalee primarie che sono disturbi a se stanti non legati ad altre patologie e sono le più frequenti e le cefalee secondarie che dipendono da altre patologie, come, ad esempio, la cefalea da trauma cranico e/o cervicale, quella da disturbi vascolari cerebrali (come (ictus. malformazioni artero-venose, ecc.) o la cefalea da patologie intracraniche non vascolari (tumori cerebrali, alterazioni della pressione liquorale, ecc.).

A loro volta, le cefalee primarie comprendono l’emicrania, la cefalea di tipo tensivo, la cefalea a grappolo che si differenziano per la tipologia del dolore, l’intensità, la sua collocazione nella testa, la durata, la frequenza e gli altri sintomi di accompagnamento )

L’emicrania si caratterizza per un dolore pulsante con intensità moderata-severa che, spesso, si localizza nella metà della testa e del volto. Il paziente non riesce a svolgere nessuna delle attività quotidiane perché ogni azione aggrava il dolore e, a volte (emicrania con aura), gli attacchi vengono preceduti, o più raramente accompagnati e seguiti da disturbi neurologici soprattutto visivi. La crisi si manifesta solitamente insieme ad altri disturbi come vomito e intolleranza alla luce, ai rumori e agli odori forti  e può durare da alcune ore a 2-3 giorni. Due terzi circa dei pazienti emicranici sono donne.

La cefalea di tipo tensivo, invece, presenta una intensità lieve-moderata, di tipo gravativo o costrittivo (classico cerchio alla testa) della durata di alcuni minuti o ore o anche alcuni giorni, talvolta aggravata dalle attività fisiche usuali e non associata, in genere, a nausea o vomito. È la forma più frequente di cefalea con una prevalenza di circa l’80%. Può esserci familiarità nello sviluppo di questa cefalea così come fattori ambientali tra cui lo stress, l’affaticamento, errate posture o riduzione delle ore di sonno.

Infine, la cefalea a grappolo provoca attacchi dolorosi più brevi (1-3 ore) molto intensi e lancinanti che si susseguono 1 o più volte al giorno per un periodo di tempo in media di 2 settimane (grappolo), alternati a periodi senza dolore. L’area interessata è quella perioculare e, al contrario delle altre due forme, la cefalea a grappolo colpisce prevalentemente gli uomini. In genere gli episodi si ripetono ciclicamente con una cadenza stagionale o di 1/2periodi all’anno.

Per maggiori info sulla Giornata del Mal di Testa visitare il sito web delle Società Scientifiche che promuovono la Giornata: www.neuro.it e www.sisc.it

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di Rossella Gemma

Una delle emergenze con le quali gli esperti dovranno confrontarsi sempre più spesso nei prossimi anni, è la degenerazione maculare legata all’età, che attualmente interessa oltre 1milione di italiani che hanno un “buco” al centro del campo visivo: per loro leggere è quasi impossibile, guidare un’utopia e anche camminare e andare a fare la spesa un’impresa. Un panorama destinato a cambiare nel prossimo futuro grazie all’arrivo di nuovi farmaci e di innovative strategie di intervento su cui gli esperti hanno fatto il punto nel corso del 2° Congresso Nazionale della Società Italiana di Scienze Oftalmologiche (S.I.S.O.) appena conclusosi a Roma.

LE PATOLOGIE DELLA MACULA

“La maculopatia è una patologia che compromette in maniera significativa la qualità di vita dei pazienti ed è molto diffusa: riguarda il 2% degli italiani e aumenta al crescere dell’età – osserva Stanislao Rizzo, direttore della Clinica Oculistica del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCSS, professore ordinario di Oculistica presso Università Cattolica e membro del Consiglio direttivo S.I.S.O. – E’ ormai una malattia sociale e rappresenta la causa più frequente di ipovisione e disabilità visiva dopo i 50 anni, nel mondo occidentale. Ne esistono due forme, quella “secca”, la più comune (circa il 90% di tutte le forme), e quella umida o essudativa. La maculopatia umida fino a qualche anno fa non era considerata curabile ma i progressi terapeutici degli ultimi anni hanno consentito di rallentarne notevolmente la progressione e di ridurne la evoluzione”.  

“Purtroppo - mette in guardia l’esperto - molti pazienti arrivano alla diagnosi in ritardo perché non si sottopongono a visite oculistiche di controllo dopo i 50 anni e perché trascurano i sintomi iniziali, costituiti principalmente dalla visione un po’ distorta delle immagini: se l’altro occhio è sano, accade di non accorgersene subito e il disturbo progredisce, fino ad arrivare alla comparsa di una macchia scura potenzialmente irreversibile e indistinta in mezzo al campo visivo. L’obiettivo della ricerca di questi ultimi anni è stato perciò trovare farmaci che potessero essere più efficaci nel ritardare la progressione della perdita visiva agendo anche su altri fattori di crescita coinvolti, e che rendessero più agevole la cura, riducendo la necessità di somministrazioni intravitreali”.

IN ARRIVO NEL 2023 NUOVO FARMACO CONTRO MACULOPATIA ‘SECCA’

La maculopatia secca è dovuta alla formazione di depositi giallastri sotto la macula con atrofia del tessuto retinico e la riduzione della visione centrale è in genere più graduale e lentamente progressiva. E’ attesa per quest’anno l’approvazione da parte dell'EMA, a seguito dell'ok della FDA di qualche mese fa, di un nuovo farmaco, Pegcetacoplan, una terapia attualmente in uso per i pazienti con una rara malattia del sangue. “Nei pazienti con maculopatia secca, nelle forme più avanzate, al momento orfane di terapie, il farmaco, iniettato per via intravitreale, - spiega Rizzo - va ad inattivare il meccanismo di infiammazione che è mediato dalla “cascata del complemento”, ovvero una serie concatenata di eventi infiammatori responsabili della degenerazione fotorecettoriale. Il farmaco potrebbe rallentarne l’evoluzione senza purtroppo restituire la vista.  I trials di fase I (Filly), II e III (OAKS e DERBY) hanno mostrato una regressione delle aree di atrofia retinica a fronte di buoni profili di sicurezza”, sottolinea l’esperto.

 

IN ARRIVO NEL 2023 ANTICORPI MONOCLONALI A “DOPPIO BERSAGLIO” E “RICARICABILI” NELL’OCCHIO CONTRO MACULOPATIA UMIDA 

La maculopatia “umida” è causata da una crescita anomala di neovasi sotto la macula, la parte centrale della retina responsabile della visione fine e la compromissione della vista in questa forma può avvenire in modo repentino. La terapia della forma umida da qualche anno si avvale di farmaci molto potenti diretti contro un fattore di crescita che facilita la proliferazione dei neovasi nella regione maculare. Sono le cosìdette terapie anti-VEGF che vengono somministrate direttamente nell’occhio (iniezioni intravitreali) in maniera continuativa, in genere una volta al mese, con notevole impegno di tempo anche da parte del paziente. “Sono però finalmente in arrivo terapie innovative, sempre più potenti e a lunga durata di azione, che ci consentiranno di allungare gli intervalli di trattamento”, dichiara Francesco Bandello, direttore Clinica Oculistica Vita-Salute San Raffaele di Milano e membro del Consiglio Direttivo S.I.S.O. “E’ il caso del nuovo anticorpo faricimab, disponibile da pochi mesi e a breve rimborsabile dal Servizio Sanitario Nazionale. Questo è il primo anticorpo bispecifico, cioè a “doppio bersaglio” perché oltre ad agire come anti VEGF colpisce anche un secondo importante bersaglio cioè l’angipoietina-2, un’altra sostanza che concorre ad aumentare la formazione di nuovi vasi, contribuendo in questo modo a migliorare la stabilità vascolare e a ridurre la risposta dei vasi ai VEGF”. 

Arriverà anche in Italia, sempre nel 2023, contro la maculopatia senile umida e l’edema maculare diabetico, anche un anticorpo monoclonale anti VEGF già utilizzato, ranibizumab, inserito in un piccolo serbatoio ricaricabile, impiantato nella parete dell’occhio e che eroga quotidianamente piccole quantità di farmaco. “L’innovativa strategia terapeutica è quella di impiantare chirurgicamente nell’occhio piccoli serbatoi che rilasciano gradualmente il farmaco all’interno. Questo potrebbe estendere l’intervallo di ritrattamento a sei mesi, semplicemente facendo il refill del serbatoio e riducendo così il numero delle iniezioni necessarie all’anno”.  

I dati mostrano che quasi tutti i pazienti (98%), possono lasciare passare un intervallo di 6 mesi fra un refill e l’altro, con la stessa efficacia terapeutica del trattamento mensile intravitreale del farmaco. Anche per quanto riguarda l’impiego di faricimab, recenti studi pubblicati anche su The Lancet, confermano che nel 60% dei pazienti può essere somministrato ogni 4 mesi, anziché 2 come l’attuale standard terapeutico. I nuovi trattamenti aggiungono quindi un vantaggio: l’estensione dell’intervallo tra le somministrazioni, riducendo il numero delle iniezioni.

DA TERAPIA GENICA SPERANZE DI CURA ANCHE PER IL TRATTAMENTO DELLE MALATTIE RETINICHE CRONICHE 

La terapia genica è la terapia più avanzata, costituisce una grande risorsa per il trattamento di alcune patologie retiniche rare, e si va affermando sempre di più. “E’ ormai consolidata e approvata – afferma il prof. Rizzo – la terapia genica per una forma di distrofia retinica ereditaria, l’Amaurosi congenita di Leber (LCA), mentre sono attualmente in corso trial clinici con terapia genica per altre varianti di retinite pigmentosa, la sindrome di Usher, e la malattia di Stargardt. Si tratta di patologie per le quali i ricercatori sono riusciti a individuare un gene “difettoso” specifico che impedisce a determinate cellule retiniche di funzionare correttamente, causando problemi alla vista che possono peggiorare nel tempo. Con la terapia genica, questi geni “difettosi” vengono sostituiti con copie sane, che vanno così a correggere l'errore che ha scatenato la malattia, potenzialmente per tutta la vita”. Grazie ai progressi della scienza e della tecnologia medica, la terapia genica potrà presto essere utilizzata anche contro alcune gravi patologie oculari e non solo per correggere malattie ereditarie. “E’ allo studio anche una terapia genica per il trattamento della maculopatia senile umida, per la retinopatia diabetica e altre malattie retiniche croniche. In questi casi non si tratta di sostituire un gene malato né di correggere un difetto, ma di modificare il genoma delle cellule retiniche inducendole  a produrre sostanze anti VEGF, quelli stessi farmaci che finora abbiamo iniettato dall’esterno una volta al mese”.

DA INTELLIGENZA ARTIFICIALE UN AIUTO PER LA DIAGNOSI DI RETINOPATIA DIABETICA

Nuove possibili applicazioni per la diagnosi di patologie retiniche potrebbero arrivare dall’impiego dell’Intelligenza artificiale. In un trial clinico italiano, condotto in Piemonte, è stata dimostrata l'efficacia di uno specifico algoritmo, Dairet (Diabetes Artificial Intelligence for RETinopathy), per lo screening di primo livello della retinopatia diabetica, complicanza che interessa il 30% dei pazienti diabetici. Lo studio, pubblicato sulla rivista Diabetes & Obesity International Journal, ha dimostrato un’elevata efficacia dell’algoritmo nel rilevare i casi lievi e moderati di retinopatia, con un rapporto di sensibilità, ossia di capacità di individuazione dei casi, pari al 91,6% per la retinopatia lieve e al 100% per la retinopatia moderata. Anche la specificità del test, cioè la capacità di identificare correttamente i soggetti sani, è risultata molto alta, con un rapporto di specificità pari all’82,6%, quindi con basso tasso di falsi positivi.

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di Rossella Gemma

“Un piccolo gesto può alimentare un grande sogno: dona il latte materno”. Questo è lo slogan scelto per la Giornata Mondiale della Donazione del Latte Umano 2023, che si è celebrata il 19 maggio.

Il latte materno, unico, inimitabile ed in continua evoluzione, è il miglior alimento disponibile per tutti i neonati, siano essi prematuri o nati a termine. Sono state rinvenute centinaia di componenti al suo interno e se ne continuano a scoprire di nuove, ma ancora oggi non si conosce la composizione completa del latte umano, che varia, poi, durante le varie fasi dell’allattamento. Dal primo al sesto giorno di vita, il neonato riceverà il “colostro”, la prima forma di latte materno ricco di proteine, sali minerali e anticorpi (come le immunoglobuline). Dal sesto al quindicesimo giorno, la mamma produrrà il “latte di transizione”, dove aumenta la concentrazione di grassi e lattosio per consentire un maggior apporto calorico. Dal quindicesimo giorno di allattamento in poi, verrà prodotto il “latte maturo”, dove rimane alta la concentrazione di zuccheri e grassi ed aumenta la presenza di anticorpi. Questi continui cambiamenti nella composizione del latte materno fanno sì che questo alimento sia particolarmente adatto per tutte le varie fasi di vita che il cucciolo dell’uomo incontra dalla nascita in poi.

Quando il latte materno non è disponibile, la migliore alternativa possibile è il latte umano donato fornito da Banche del Latte certificate. Nel mondo ci sono più di 750 banche che raccolgono il latte umano donato, sono situate in 66 paesi e forniscono oltre 1 milione di litri di latte umano a più di 800.000 neonati ogni anno. Si tratta, perlopiù, di neonati prematuri e vulnerabili che possono ricevere questo fondamentale alimento: un dono speciale e straordinario da donne sensibili, motivate e molto generose. Poco meno della metà delle banche (282) si trova in Europa. Con 41 Banche attive sul suo territorio, l’Italia è il primo paese in Europa, seguito dalla Germania con 37 e dalla Francia con 36.

In Italia, nonostante la cospicua presenza di Banche del Latte Umano Donato (BLUD), il fabbisogno di latte umano donato nei neonati più vulnerabili non è ancora soddisfatto, perché le BLUD sono distribuite in modo disomogeneo e non organizzate in rete. Il “Gruppo di Lavoro ad hoc” sul latte umano donato (LUD), istituito dal Ministero della Salute e costituito da membri di Associazione Italiana Banche del Latte Umano Donato (AIBLUD), Tavolo Tecnico Allattamento (TAS) e Società Italiana di Neonatologia (SIN), ha prodotto un documento sul tema, dopo una aggiornata revisione della letteratura. Il documento contiene delle proposte per i policy makers aventi il fine di valorizzare il LUD ed ottenere una maggiore disponibilità di questo prezioso alimento nel nostro Paese.

Tra gli interventi proposti per qualificare il sistema delle BLUD, in maniera da ottimizzare l’organizzazione e l’efficienza del servizio a livello nazionale, i più significativi sono:

  • garantire la fornitura di LUD nelle aree attualmente carenti promuovendo la creazione di nuove BLUD e/o di reti regionali e interregionali delle BLUD;
  • migliorare l’efficienza delle BLUD;
  • creare un sistema integrato di BLUD e Centri neonatologici per promuovere la donazione, facilitare la raccolta e ottimizzare l’uso del latte donato;
  • riconoscere e promuovere l’utilizzo del LUD come opzione strategica per l’alimentazione di neonati e lattanti durante le situazioni di emergenza (terremoti, inondazioni ed altri disastri ambientali).

Il governo e le autorità sanitarie hanno un ruolo cruciale nel garantire la migliore alimentazione possibile ai bambini pretermine o malati o in situazioni emergenziali, supportando un sistema integrato di assistenza che includa il servizio offerto dalle Banche del Latte Umano.

La Giornata Mondiale della Donazione del Latte Umano serve a ricordare ad istituzioni e decisori politici, a tutti coloro che si prendono cura dei neonati nelle Terapie Intensive Neonatali, alle famiglie di questi bambini ed a coloro che sono coinvolti nell’organizzazione e nella gestione dei servizi neonatologici, che fornire latte umano donato a neonati vulnerabili, che non hanno disponibilità di latte materno, può salvare vite umane ed aumentare la consapevolezza del valore dell’allattamento al seno e del latte umano nelle Terapie Intensive Neonatali e nella comunità.

 

"Un ringraziamento speciale va a tutte le mamme donatrici che con il loro gesto contribuiscono alla salute dei neonati prematuri e di quelli più fragili”, il pensiero comune dei due Presidenti, AIBLUD Guido Moro e SIN Luigi Orfeo, in questa giornata dedicata alla donazione del latte umano in tutto il mondo.

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di Rossella Gemma

Ogni giorno nel mondo vengono scattati 93milioni di selfie ma fissare direttamente il sole, anche per pochi secondi in spiaggia o in montagna alla ricerca dell’inquadratura perfetta acchiappa like, può creare un danno fototermico alla retina, anche in modo irreparabile, come quando si osserva un’eclissi solare senza che le radiazioni luminose siano adeguatamente schermate da specifici occhiali. Un danno alla retina può essere causato anche dall’uso prolungato di smartphone e tablet. Infatti, lo schermo esposto al sole fa da superficie riflettente come uno specchio ed i raggi dannosi, convergendo sulla macula, la parte più nobile della retina, producono un effetto degenerativo.  Da qui il monito degli esperti S.I.S.O., che prende le mosse da due casi descritti di recente sul Journal of Medical Case Reports, che documentano danni permanenti alla retina riportati da un uomo di trent’anni che due giorni prima aveva trascorso tre ore a leggere sul suo tablet durante una gita in montagna, così come accaduto ad una ragazza di venti anni, che il giorno prima aveva trascorso due ore a guardare il telefono in spiaggia. 

“Sono chiari esempi di maculopatia solare - spiega Scipione Rossi, direttore UOC Ospedale Oftalmologia San Carlo di Nancy di Roma e segretario tesoriere S.I.S.O. – Una condizione determinata dall’assorbimento da parte della retina e dell’epitelio pigmentato di una elevata energia radiante che causa inizialmente una sensazione di abbagliamento. Nei casi più gravi le cellule nervose in pochi giorni possono formare una macchia nera al centro dell’occhio (scotoma). La lesione può essere permanente e causare una riduzione della visione centrale irreversibile perché una volta morte, ovviamente, le cellule non si riproducono. Per questo è opportuno - raccomanda Rossi - evitare selfie sotto il sole senza specifiche protezioni perché gli occhiali da sole non sono sufficienti a filtrare in modo adeguato le radiazioni luminose. Va anche limitato l’uso prolungato di tablet e smartphone senza indossare occhiali da sole”.

Ma l’utilizzo improprio dei dispositivi elettronici non è l’unico errore che si tende a fare in estate. In generale anche l’eccessiva esposizione al sole, camminando o stando fermi in spiaggia o in montagna, può comportare rischi per la vista. L’acqua riflette dal 10 al 20% dei raggi UV ma anche in montagna, dove i raggi ultravioletti sono spesso più intensi che in pianura, gli escursionisti, che non indossano occhiali sa sole con filtri adeguati, possono riportare gravi alterazioni della superficie oculare. 

“I raggi UV possono danneggiare gli occhi proprio come le scottature solari danneggiano la pelle con rischi spesso ignorati o sottovalutati. Le lesioni oculari da raggi UV, possono essere temporanee o permanenti – dichiara Stanislao Rizzo, direttore Clinica Oculistica Università Cattolica Sacro Cuore di Roma e membro del Consiglio direttivo S.I.S.O.  – Le lesioni oculari da raggi UV indicano un danno da luce della superficie oculare dovuta all’esposizione eccessiva e non protetta ai raggi ultravioletti, che possono essere amplificate dal riflesso di acqua e altitudine e possono provocare congiuntivite, un’infiammazione della congiuntiva da disidratazione e fotocheratite, una lesione della cornea che si manifesta con estrema sensibilità alla luce e dolore” sottolinea l’espertoI danni da raggi UV possono essere confusi con altri fattori irritanti per gli occhi come sabbia e vento. Ecco perché è importante chiarire i sintomi tipici che si manifestano di solito dalle 3 alle 12 ore dopo l’esposizione solare: occhi doloranti e pruriginosi, lacrimosi, arrossati e una vista appannata e non nitida. “Nella maggior parte dei casi – osserva Rizzo - guariscono dopo due o tre giorni, perché gli strati superficiali della cornea hanno la capacità di rigenerarsi in poco tempo. Ma per determinare l’entità del danno, è necessario farsi visitare da un oculista che potrà prescrivere antinfiammatori in collirio, antibiotici per evitare una sovrainfezione e gel contenente vitamina D. Tuttavia – prosegue – la continua sollecitazione data dai raggi solari può provocare fenomeni di secchezza oculare cronica che comporta arrossamento e assottigliamento del filtro lacrimale, ma può addirittura aumentare il rischio di degenerazione maculare e anche accelerare malattie come la cataratta”. 

 

Consigli esperti S.I.S.O. per proteggere gli occhi dai danni da raggi UV e per intervenire ai primi segnali

 

  1. Gli occhi vanno sempre protetti con occhiali da sole di qualità, dotati di filtri certificati che garantiscano il 100% di protezione anche contro i raggi UVA e UVB, con montatura ampia meglio ancora se a maschera, e con lenti polarizzate in grado di filtrare i raggi riflessi da altre superfici riducendo l’abbagliamento.
  2. Gli occhiali da sole vanno utilizzati anche all’ombra e con cielo coperto perché i raggi UV passano lo stesso.
  3. Anche le zone della pelle immediatamente vicine all’occhio vanno coperte con creme solari che facciano da barriera fisica.
  4. Evitare l’esposizione ai raggi solari, soprattutto d’estate nelle ore centrali della giornata, anche in montagna perché l’altitudine aumenta l’intensità dei raggi UV.
  5. Massima protezione deve essere garantita ai bambini perché il loro cristallino, fino al 12esimo anno d’età, è più trasparente. E’ quindi importante assicurarsi che indossino, oltre a un buon occhiale da sole, anche un cappellino con visiera.
  6. Attenzione particolare va posta anche per gli occhi delle persone anziane, tra i soggetti più a rischio visto che l’invecchiamento comporta perdita di gran parte dei processi di riparazione dei tessuti oculari, compresi quelli danneggiati da esposizioni pluridecennali al sole.
  7. In caso di scottature, rivolgersi il più rapidamente possibile all’oculista per valutare l’entità della lesione ed escludere eventuali conseguenze più gravi.
  8. Evitare di strofinare gli occhi, anche in caso di bruciore, per non danneggiarli ulteriormente. Rimanere in un luogo buio fino a quando i sintomi non si saranno attenuati. 
  9. Rimuovere immediatamente le lenti a contatto per evitare ulteriori irritazioni.
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di Rossella Gemma

Il rischio che la perdita di fertilità maschile diventi un problema irreversibile per la specie umana è reale. La Società Italiana di Andrologia (SIA), segnala il pericolo dello scenario peggiore che nel 2070 possa crollare la possibilità per gli uomini di generare figli, se non verranno cambiati gli stili di vita e le condizioni ambientali, oltre ai comportamenti logicamente legati a un calo dei tassi di fertilità, come l’astinenza sessuale, sempre più diffusa tra i giovani e l’aumento dell’età di concepimento. Infatti si stima che siano oltre 1,6 milioni i 18-40enni che mai nella vita hanno fatto sesso, che è sempre più virtuale e sganciato da aspetti relazionali e riproduttivi. A questo si aggiunge che l’età media del primo figlio in Europa è in costante aumento e all’Italia spetta il primato del Paese europeo dove il primo figlio si fa più tardi: in media 35 anni per le donne e 40 per gli uomini. Il problema non riguarda solo i Paesi più sviluppati, ma in misura crescente anche il Sud del mondo. 

“In appena 40 anni, gli uomini occidentali hanno visto calare del 52,4% la concentrazione degli spermatozoi. Gli studi realizzati documentano che, dal 1970 al 2018, in Occidente si è passati dai 101 milioni di spermatozoi ogni ml di liquido seminale nel 1970 ai 49 milioni ml nel 2018” - dichiara Alessandro Palmieri, presidente SIA e Professore Associato di Urologia all’Università Federico II di Napoli - “Una tendenza che vive una discesa inarrestabile ancora più preoccupante per il ripido declino fra il 2000 e il 2018, attestato dalla metanalisi pubblicata a novembre scorso su “Human Reproduction Update”. Se infatti dal 1973 al 2000 il calo di concentrazione spermatica è stato dell’1,6% ogni anno, dal 2000 al 2018 la riduzione ha segnato più del doppio, pari al 2,64% per anno” – sottolinea Palmieri – “Se il trend continuerà e non verrà arrestato, entro il 2070 si perderà oltre il 40% della fertilità maschile con serissimi pericoli per la procreazione nei Paesi Occidentali, se non cambieremo l’ambiente che ci circonda, le sostanze chimiche a cui siamo esposti e il nostro stile di vita”. 

Emblematico è il caso dell’Italia dove nel 2022 sono nati poco più di 392.000 bambini. “Se si fanno meno figli la colpa è senz’altro del disagio economico e sociale, che porta a procrastinare la costituzione di una famiglia, ma sul banco degli imputati c’è soprattutto la fertilità maschile, tutt’altro che cresciuta con il benessere. L’obesità, la sedentarietà, l’abitudine al fumo e la diffusione delle malattie sessualmente trasmesse, sono infatti tra le principali cause indiziate di aver determinato il calo degli spermatozoi, a cui vanno aggiunti i cambiamenti climatici e l’inquinamento ambientale”, sottolinea con forza Palmieri. “In particolare l’obesità triplica la probabilità di bassa concentrazione di spermatozoi rispetto agli uomini con peso nella norma. Negli uomini obesi il rischio di infertilità aumenta di circa il 10% per ogni 9 kg di sovrappeso corporeo. Anche il riscaldamento globale rallenta la spermatogenesi, già con una variazione di soli 0,1 gradi centigradi. Se la temperatura globale si innalzerà di 2,8 gradi entro la fine del secolo, lo stress termico duraturo e progressivo avrà un effetto negativo ulteriore sulla qualità seminale che già subisce significative variazioni nella stagione più calda”. 

Il calo degli spermatozoi è documentato anche nelle popolazioni asiatiche, africane e sudamericane ed è stato rilevato, in particolare, in un lavoro appena pubblicato su Scientific Report, che dimostra un calo dell’89% dal 2010 al 2019 della motilità spermatica in Sud Africa e in Nigeria e un peggioramento dei parametri dello sperma con l'avanzare dell'età.

“La qualità del seme maschile deve essere considerata una “sentinella” dell’ambiente, visto che nelle aree più colpite dall’inquinamento si nota un calo più grave della concentrazione spermatica” – dichiara Luigi Montano, uroandrologo SIA e past president della Società italiana riproduzione umana (SIRU) – “Lo accerta pure il recente rapporto dell’Oms sulla infertilità di coppia, pubblicato ad aprile 2023, in cui si parla di una media globale del 17,5% e in Cina di un dato superiore al 23%. Ciò è stato correlato agli alti tassi di inquinamento che si rilevano in quel Paese, sceso al secondo posto, in base alle recenti proiezioni demografiche, nella classifica degli Stati più popolosi del pianeta dopo l’India”.

“Le autorità sanitarie e politiche devono quindi valutare il problema della denatalità, non solo considerando le cause socio-economiche ma anche le responsabilità biologiche, intervenendo in maniera seria e massiva sull’inquinamento atmosferico e sulle abitudini di vita scorrette. l’uomo è in crisi e il suo “default” potrebbe determinare pure quello dell’umanità” concludono Palmieri e Montano.

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di Rossella Gemma

Secondo quanto riportato sul sito del Ministero della Salute, il pediatra di libera scelta (PLS) – cd. pediatra di famiglia – è il medico preposto alla tutela della salute di bambini e ragazzi tra 0 e 14 anni. Ad ogni bambino, sin dalla nascita, deve essere assegnato un PLS per accedere a servizi e prestazioni inclusi nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e garantiti dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN). «L’allarme sulla carenza dei PLS – afferma Nino Cartabellotta Presidente della Fondazione GIMBE – oggi è lanciato da genitori di tutte le Regioni, da Nord a Sud con narrative dove s’intrecciano questioni burocratiche, mancanza di risposte da parte delle ASL, pediatri con numeri esorbitanti di assistiti, sino all’impossibilità di esercitare il diritto d’iscrivere i propri figli al pediatra di famiglia con potenziali rischi per la salute, in particolare dei più piccoli e dei più fragili».

Al fine di comprendere meglio le cause e le dimensioni del fenomeno, la Fondazione GIMBE ha analizzato le criticità insite nelle norme che regolano l’inserimento dei PLS nel SSN e stimato l’entità della carenza di PLS nelle diverse Regioni italiane. «È bene precisare – spiega Cartabellotta – tre aspetti fondamentali. Innanzitutto le regole sulle fasce di età di assistenza esclusiva dei minori, quelle per definire il “massimale” degli assistiti e quelle per identificare le aree carenti di pediatri sono frutto di compromessi con i medici di medicina generale (MMG), oltre che delle politiche sindacali degli stessi PLS. In secondo luogo, su carenze e fabbisogno è possibile solo fare stime a livello regionale, perché la reale necessità di PLS viene stimata dalle singole Aziende Sanitarie Locali (ASL). Infine, sui numeri relativi ai nuovi specialisti in pediatria che intraprendono la carriera di PLS e su quelli che vanno in pensione possono solo essere fatte delle stime».

Fasce di età. Sino al compimento del 6° anno di età i bambini devono essere assistiti per legge da un PLS, mentre tra i 6 e 14 anni i genitori possono scegliere tra PLS e MMG. Al compimento dei 14 anni la revoca del PLS è automatica, tranne per pazienti con documentate patologie croniche o disabilità per i quali può essere richiesta una proroga fino al compimento del 16° anno. «Queste regole – spiega Cartabellotta – se da un lato contrastano con la definizione di PLS come medico preposto alla tutela della salute di bambini e ragazzi tra 0 e 14 anni, dall’altro rappresentano un enorme ostacolo per un’accurata programmazione del fabbisogno di PLS». Infatti, secondo i dati ISTAT al 1° gennaio 2022 la fascia 0-5 anni (iscrizione obbligatoria al PLS) include più di 2,6 milioni di bambini e quella 6-13 (iscrizione facoltativa al PLS) quasi 4,3 milioni: ovvero oltre il 62% della fascia 0-13 anni potrebbe iscriversi ad un MMG in base alle preferenze dei genitori.

Massimale di assisiti. Secondo quanto previsto dal Ministero della Salute, il numero massimo di assistiti di un PLS è fissato a 800, ma esistono varie deroghe nazionali, regionali e locali che portano spesso a superare i 1.000 iscritti: indisponibilità di altri pediatri del territorio, fratelli di bambini già in carico ad un PLS, scelte temporanee (es. extracomunitari senza permesso di soggiorno, non residenti). «In tal senso – commenta il Presidente – le politiche sindacali locali hanno sempre mirato ad innalzare il massimale (e i compensi) dei PLS già in attività, piuttosto che favorire l’inserimento di nuovi colleghi».

Zone carenti. I nuovi PLS vengono inseriti nel SSN previa identificazione da parte della Regione - o soggetto da questa individuato - delle cosiddette “zone carenti”, ovvero gli ambiti territoriali in cui occorre colmare un fabbisogno assistenziale e garantire una diffusione capillare degli studi dei PLS. Attualmente, tuttavia, la necessità della zona carente viene calcolata solo sulla fascia di età 0-6 anni tenendo conto di un rapporto ottimale di 1 PLS ogni 600 bambini. «È del tutto evidente – chiosa il Presidente – che questo metodo di calcolo sottostima il fabbisogno di PLS: paradossalmente, facendo riferimento alle regole vigenti, i PLS sarebbero addirittura in esubero perché il loro fabbisogno viene stimato solo per i piccoli sino al compimento dei 6 anni. Mentre di fatto assistono oltre l’80% di quelli della fascia 6-13 anni». Va segnalato che la bozza del nuovo Accordo Collettivo Nazionale propone di rivedere il calcolo del rapporto ottimale tenendo conto degli assistibili di età 0-14 anni, decurtati dagli assistiti di età >6 anni in carico ai MMG e di innalzare il massimale da 800 a 1.000 assistiti.

Pensionamenti. Secondo le stime dell’ENPAM al 31 dicembre 2021 più del 50% dei PLS aveva oltre 60 anni di età ed è, quindi, atteso un pensionamento massivo nei prossimi anni: ovvero, considerando una età di pensionamento di 70 anni, entro il 2031 dovrebbero andare in pensione circa 3.500 PLS.

Nuovi pediatri. Il numero di borse di studio ministeriali per la scuola di specializzazione in pediatria, dopo un decennio di sostanziale stabilità, è nettamente aumentato negli ultimi 5 anni: dai 440 nell’anno accademico 2016-2017 a 841 nel 2021-2022, con un picco di 973 nell’anno accademico 2020-2021 (figura 1). «Tuttavia – spiega Cartabellotta – se da un lato è impossibile sapere quanti specializzandi in pediatria sceglieranno la carriera di PLS e quanti quella ospedaliera, dall’altro è certo che i nuovi pediatri non saranno comunque sufficienti per colmare il ricambio generazionale». In particolare, l’ENPAM stima che il numero dei giovani formati o avviati alla formazione specialistica coprirebbe solo il 50% dei posti di PLS necessari.

Trend 2019-2021. Secondo l’ultimo aggiornamento del report Agenas Il Personale del Servizio Sanitario Nazionale nel 2021 in Italia i PLS in attività erano 7.022, ovvero 386 in meno rispetto al 2019 (-5,5%). Inoltre, secondo quanto riportato dall’Annuario Statistico del SSN 2021, i PLS con oltre 23 anni di specializzazione sono passati dal 39% nel 2009 all’80% nel 2021 (figura 2). «Un dato – commenta Cartabellotta – che aggiunge alla carenza di PLS il mancato ricambio generazionale che con i pensionamenti dei prossimi anni rischia di creare un vero e proprio “baratro” dell’assistenza pediatrica».

Numero di assistiti per PLS. Secondo le rilevazioni della Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati (SISAC), al 1° gennaio 2022, 6.921 PLS avevano in carico quasi 6,2 milioni di iscritti, di cui il 42,3% (2,62 milioni) della fascia 0-5 anni e il 57,7% (3,58 milioni) della fascia 6-13 anni, pari all’83,3% della popolazione ISTAT al 1° gennaio 2022 di età 6-13 anni. In termini assoluti, la media nazionale è di 896 assistiti per PLS e a livello regionale solo Umbria (784), Sardegna (788), Sicilia (792) e Molise (798) rimangono al di sotto del massimale senza deroghe; 17 Regioni superano invece la media di 800 assistiti per PLS di cui Piemonte (1.092), Provincia Autonoma di Bolzano (1.060) e Toscana (1.057) vanno oltre la media di 1.000 assistiti per PLS (figura 3). «Lo scenario – spiega Cartabellotta – è molto più critico di quanto lasciano trasparire i numeri: infatti, con un tale livello di saturazione non solo viene meno il principio della libera scelta, ma in alcune Regioni diventa impossibile trovare disponibilità di PLS, in particolare nelle aree interne o disagiate dove i bandi per le zone carenti vanno spesso deserti».

Fabbisogno di PLS. «Tutte le criticità sopra rilevate – spiega Cartabellotta – permettono solo di stimare il fabbisogno di PLS in base al numero di assistiti attuali a livello regionale, in quanto la necessità di ciascuna zona carente viene identificata dalle ASL in relazione a numerose variabili locali, previa consultazione con i sindacati». Utilizzando i dati della SISAC al 1° gennaio 2022 e ipotizzando una media di 800 assistiti a PLS (pari all’attuale tetto massimo) si stima a livello nazionale una carenza di 840 PLS, con notevoli differenze regionali (figura 4). Ma con una media di 700 assistiti per PLS, che garantirebbe l’esercizio della libera scelta, ne mancherebbero addirittura 1.935.

«La carenza di PLS – conclude Cartabellotta – deriva da errori di programmazione del fabbisogno, in particolare la mancata sincronia per bilanciare pensionamenti attesi e borse di studio per la scuola di specializzazione. Ma rimane fortemente condizionata sia da miopi politiche sindacali, sia da variabili locali non sempre prevedibili che rendono difficile calcolarne il fabbisogno. Innalzare l’età pensionabile a 72 anni e aumentare il massimale a 1.000 servono solo a mettere “la polvere sotto il tappeto” e non a risolvere il grave problema della carenza dei PLS. In tal senso servono un’adeguata programmazione, modelli organizzativi che puntino sul lavoro di team, grazie anche alle Case di comunità e alla telemedicina, oltre che accordi sindacali in linea con i reali bisogni della popolazione. Perchè guardando ai numeri di pensionamenti attesi e dei nuovi pediatri è ragionevolmente certo che nei prossimi anni la carenza non potrà che acuirsi ulteriormente».