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di Rossella Gemma

La nuova frontiera dell’emergenza medica è già qui: le prime 100 unità Ambulance.AI sono pronte a entrare in servizio per ARES Lazio. E’ stata presentata oggi a Welfair, la Fiera del Fare Sanità, in programma alla Fiera di Roma fino al 7 novembre, “Ambulance.AI”, che trasforma le ambulanze in centrali di telemedicina mobili, connesse in tempo reale con le centrali operative per migliorare la rapidità e l’efficacia degli interventi d’emergenza.
 
Attraverso l’integrazione di intelligenza artificiale e tecnologia blockchain, ogni Ambulance.AI consente la trasmissione continua e sicura di immagini e dati medici, permettendo consulti istantanei con specialisti ospedalieri. Questa tecnologia avanzata consente il monitoraggio costante dei parametri vitali dei pazienti, migliorando la tempestività e la precisione delle cure già nel tragitto verso l’ospedale. “Ambulance.AI rappresenta una svolta per la sicurezza dei pazienti e degli operatori, ottimizzando le risorse delle aziende sanitarie e il tempo dei medici specialisti – dichiara Ido Miglioranza, CEO di Emerland.AI e ideatore del progetto - La nostra ambulanza del futuro è progettata come una piattaforma scalabile, pronta a ospitare servizi sempre più evoluti e a supportare anche le cure domiciliari”.
 
Questa innovazione punta a una sanità più sostenibile: la gestione ottimizzata degli interventi ridurrà i ricoveri ospedalieri non necessari e migliorerà la qualità della vita dei pazienti, delle loro famiglie e dei soccorritori. Inoltre, permette un utilizzo mirato degli specialisti, connessi in tempo reale tramite la centrale operativa, migliorando l’efficienza delle cure e riducendo il rischio clinico. Le sfide del trasporto sanitario – dalla complessità delle attrezzature elettromedicali all’operatività in movimento – trovano finalmente una risposta grazie ad Ambulance.AI, che introduce un modello scalabile, capace di adattarsi e crescere con le necessità della sanità moderna.
 
 
 
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di Rossella Gemma

Sono consapevoli di doversi proteggere dalle infezioni più note e ricorrenti, ossia influenza e Covid, per le quali si sono vaccinate in oltre il 75%. Invece, nei confronti di altre malattie infettive, meno frequenti ma per loro potenzialmente molto pericolose, il livello di guardia delle persone con diabete resta ancora basso: meno del 40% si è sottoposto ai vaccini contro tetano, morbillo/parotite/rosolia, polmonite, pertosse, difterite, meningite, Herpes Zoster e virus respiratorio sinciziale. È questa la fotografia scattata dall’Associazione Medici Diabetologi (AMD) nell’ambito di una survey condotta su 430 dei propri assistiti, con l’obiettivo di capire il loro atteggiamento nei confronti dei vaccini: quali conoscono, quali hanno eseguito e, se non ne hanno eseguiti, per quali motivi. I risultati della survey, presentati oggi in una conferenza stampa a Milano, hanno rilevato l’esigenza avvertita dalle persone con diabete di sentirsi consigliare più spesso, dai propri medici, le vaccinazioni a loro raccomandate. Per contribuire a colmare questo gap informativo, AMD ha lanciato la campagna di sensibilizzazione “Con il diabete vacciniamoci” che vivrà nei centri di diabetologia di tutta Italia e sui canali social societari. L’iniziativa è sponsorizzata in modo non condizionante da GlaxoSmithKline S.p.A.

“Rispetto alla popolazione generale, le persone con diabete hanno maggiori probabilità di contrarre un’infezione [i], un rischio quattro volte superiore di ricovero ospedaliero[ii] a seguito dell’infezione e un rischio doppio di decesso[iii], spiega Riccardo Candido, Presidente Nazionale AMD, tra i relatori della conferenza stampa. “Le malattie infettive possono anche causare un aumento temporaneo della glicemia, peggiorando la gestione del diabete stesso. Questi rischi non riguardano solo le infezioni più note, ma anche altre, spesso sottovalutate perché considerate più rare, come il Fuoco di Sant’Antonio (o Herpes Zoster), la polmonite pneumococcica, la meningite batterica, l’epatite B.  Le vaccinazioni che permettono di difendersi da queste patologie sono, quindi, strumenti di salute irrinunciabili per chi convive con il diabete. Il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale (PNPV) 2023-2025, infatti, prevede per loto l’offerta gratuita dei vaccini Antinfluenzale e Anti-SARS-CoV-2, Anti-pneumococcico, Anti-Herpes Zoster, Antimeningococcico, Anti-Epatite B, Anti-Morbillo-Parotite-Rosolia (MPR) e anti-Varicella”.

Al questionario proposto da AMD ai propri pazienti per sondare la loro conoscenza su questi temi, hanno risposto in 430, da tutto il Paese, per oltre il 50% over cinquantenni, 62% donne, 38% uomini, 60% con diabete tipo 1 e quasi 40% con tipo 2. “Quando abbiamo chiesto quali fossero, secondo loro, le vaccinazioni raccomandate alle persone con diabete, la stragrande maggioranza degli intervistati ha risposto Antinfluenzale e Anti-Covid, citate rispettivamente dall’81% e dal 65% del campione”, illustra Marcello Monesi, Segretario del Consiglio Direttivo Nazionale AMD e componente del board nazionale diabete e vaccini AMD. “A ‘metà classifica’ Anti-pneumococcica (52%) e Anti-Herpes Zoster (45%); chiudono, citati da meno del 30% dei rispondenti, i vaccini per tetano, meningite, morbillo/parotite/rosolia, virus respiratorio sinciziale, pertosse e difterite. Osservando i dati sulle vaccinazioni effettivamente eseguite, dopo Covid e influenza, per cui riferisce di essersi vaccinato rispettivamente l’84% e il 75% del campione, tutte le altre patologie registrano tassi di immunizzazione sotto il 40%, con Herpes Zoster e meningite addirittura sotto il 20%”.

“Risulta evidente – prosegue l’esperto – come occorra far crescere la consapevolezza dei nostri pazienti circa i rischi cui sono esposti in caso d’infezione. Con il Fuoco di Sant’Antonio, ad esempio, vi è un rischio aumentato di andare incontro a ulteriori gravi patologie come l’ictus. Ma i pazienti non lo sanno. Il 24% degli intervistati che non si sono sottoposti a vaccinazioni ritiene di non avere sufficienti informazioni e quasi il 20% di non aver ricevuto specifiche raccomandazioni da parte del proprio medico curante. Il 92% di tutti i rispondenti, inoltre, vorrebbe ricevere questa sollecitazione proprio dal diabetologo, il cui consiglio, anche in tema di vaccinazione, ha un peso specifico molto importante. Il team diabetologico dovrebbe, quindi, lavorare per l’empowerment della persona con diabete, non solo sulla gestione della terapia, il monitoraggio glicemico, l’alimentazione e l’attività fisica, ma anche sull’opportunità di vaccinarsi perché questo aspetto concorre altresì a migliorare i suoi outcome di salute”.

“Proteggersi dalle malattie infettive e dal maggior rischio di un loro decorso grave deve essere una priorità delle persone con diabete”, aggiunge Riccardo Candido. “L’esigenza di maggiore informazione in proposito, emersa dalla survey, è il motivo per cui abbiamo deciso di lanciare la campagna di sensibilizzazione ‘Con il diabete vacciniamoci’ che intende ribadire l’importanza della prevenzione vaccinale, rivolgendosi a persone con diabete, associazioni pazienti, caregiver e Istituzioni. Vivrà negli ambulatori di diabetologia di tutt’Italia, con la distribuzione di locandine e brochure informative, e sui nostri canali social. Ma servirà anche un’attività di formazione verso i diabetologi per indurli ad affrontare il tema con i pazienti durante l’attività ambulatoriale. Sarà sempre più necessario collaborare con i dipartimenti di prevenzione per creare, anche all'interno delle strutture di diabetologia, percorsi dedicati all’immunizzazione grazie ai quali, in giornate ad hoc, le persone con diabete possano valutare le vaccinazioni da loro già eseguite e programmare quelle necessarie”.

“Anche la nostra Associazione, che raccoglie impressioni, richieste e dubbi delle persone con diabete, in linea con i risultati della survey AMD, ha ricevuto il feedback di una mancanza d’informazione sul tema delle vaccinazioni”, evidenzia Marcello Grussu, Vicepresidente di Diabete Italia. “Escluse le patologie più impattanti, per le quali esistono campagne di comunicazione che producono un discreto effetto e la risposta vaccinale della popolazione, altre infezioni non rientrano nella quota di conoscenza dei pazienti in misura sufficiente a far sorgere in loro la richiesta di immunizzazione. L’informazione su queste patologie, e sui rischi che possono avere per la gestione del diabete, deve, quindi, essere maggiore e a più livelli. Le Associazioni pazienti possono svolgere un ruolo prezioso in tal senso, facendo da raccordo tra il sistema sanitario e le persone. Accogliamo con favore la campagna di sensibilizzazione promossa da AMD e siamo disponibili per amplificarne i messaggi, nella convinzione che fornire strumenti di conoscenza sia essenziale per raggiungere l’obiettivo di una maggiore copertura vaccinale della popolazione”.

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di Rossella Gemma

Sintomo di esordio o complicanza successiva, l’Epilessia costituisce una comorbidità frequente in chi è affetto da tumore cerebrale: l'Epilessia tumore-relata costituisce il 6-10% di tutti i casi di Epilessia e il 12% delle Epilessie acquisite ed è il sintomo più comune nelle persone con tumore cerebrale.

Esistono tumori cerebrali che di per sé presentano un basso rischio di evoluzione sfavorevole, ma sono molto frequentemente causa di crisi epilettiche spesso farmacoresistenti. In molti di questi casi, è possibile intervenire chirurgicamente, anche e soprattutto per ottenere il controllo delle crisi.

Purtroppo, le crisi epilettiche sono spesso associate anche a tumori cerebrali con vari gradi di malignità; in questo caso, l’intervento chirurgico riveste un duplice ruolo terapeutico: oncologico ed epilettologico.

In occasione del mese di ottobre dedicato alla prevenzione oncologica, la LICE, Lega Italiana Contro l’Epilessia, con il suo Gruppo di Studio Epilessia e Tumori, accende i riflettori su questo delicato tema: “In questi casi, l’Epilessia, quando presente, incide sfavorevolmente su una qualità della vita già spesso precaria: le crisi sono talora difficili da controllare, e oltre che un problema medico sono motivo di ulteriori restrizioni nella vita quotidiana. – sottolinea il Prof. Carlo Andrea Galimberti, Presidente LICE - I farmaci anticrisi sono necessari ma, a volte, accentuano il disagio psicologico e i problemi cognitivi già legati alla presenza del tumore e agli esiti dei provvedimenti chirurgici. Inoltre, la scelta dei farmaci anticrisi deve tener conto delle prospettive terapeutiche (Chemioterapia e Radioterapia) ed esistenziali del singolo paziente”.

L'Epilessia-tumore relata ha, infatti, caratteristiche peculiari: “Innanzitutto, le persone affette da questo tipo di Epilessia – ricorda la Dott.ssa Giada Pauletto, responsabile Gruppo di Studio Epilessia e Tumori cerebrali, LICE - sono più a rischio di ridurre la terapia o di sospenderla per effetti collaterali da farmaci anticrisi non tollerabili. Non sappiamo bene perché questo avvenga, probabilmente per caratteristiche intrinseche, per l'interazione con altri farmaci, ad esempio con i corticosteroidi, oppure per una minore tollerabilità proprio a livello psicologico. Ci sono, inoltre, dei limiti terapeutici nell’utilizzo di alcuni farmaci anticrisi a nostra disposizione, proprio perché possono interagire con gli steroidi, i chemioterapici e la radioterapia. Infine, è da sottolineare un’aumentata farmacoresistenza in questo tipo di pazienti”.

Se consideriamo globalmente la farmacoresistenza, nelle persone affette da Epilessia si arriva ad un’incidenza di circa il 30%, mentre nei casi di Epilessia tumore-relata si può arrivare sino a un 40%.

La terapia antiepilettica nelle persone con tumore cerebrale è il frutto di una decisione complessa che deve tener conto di più fattori – aggiunge la dott.ssa Eleonora Rosati, referente LICE del gruppo di studio su Epilessia e Tumori. Se, in prima battuta, si raccomanda l’impiego di farmaci indicati per l’epilessia focale, le caratteristiche che principalmente orientano il clinico verso una scelta mirata nel singolo paziente sono l’efficacia e la tollerabilità, vista la possibile farmacoresistenza e l’alta incidenza di eventi avversi in questa popolazione di individui”.

Per minimizzare il rischio di interazioni farmacologiche con le terapie oncologiche o quelle usate per altre comorbidità, i farmaci che non siano induttori o inibitori enzimatici sono, in generale, da preferire. Un altro criterio di scelta è rappresentato dalla disponibilità di formulazioni per somministrazione endovenosa o in soluzione per via orale, utili, ad esempio, nella gestione delle urgenze. Anche la possibilità di un rapido aggiustamento del dosaggio di un farmaco fino al raggiungimento dell'effetto terapeutico desiderato può rappresentare un vantaggio, considerando che la necessità di un rapido cambiamento terapeutico o di trattare crisi subentranti sono, in questi casi, tutt’altro che infrequenti.

Gli effetti sulle comorbidità come quella psichiatrica o cognitiva hanno, inoltre, un ruolo importante nella selezione di un farmaco e fanno propendere per l’impiego di farmaci con bassa probabilità di influire sfavorevolmente sulle performance cognitive e sull’umore.

Con oltre 50 milioni di persone colpite nel mondo, l’Epilessia è una delle malattie neurologiche più diffuse, per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l’Epilessia come malattia sociale. Si stima che nei Paesi industrializzati interessi circa 1 persona su 100: in Italia soffrono di Epilessia circa 600.000 personeben 6 milioni in Europa. Nei Paesi a reddito elevato, l’incidenza dell’Epilessia presenta due picchi, rispettivamente nei primi anni di vita e dopo i 75 anni. Nel 2022 l’OMS ha ratificato il Piano d’Azione Globale Intersettoriale per l’Epilessia e gli altri Disturbi Neurologici 2022 – 2031 (Intersectorial Global Action Plan for Epilepsy and other Neurological Disorders, IGAP), il primo piano d’azione globale sulla gestione dell’epilessia, che detta fondamentali obiettivi per gli Stati Membri nei prossimi dieci anni. Gli scopi principali dell’IGAP sono: ottenere l’assistenza sanitaria universale con la fornitura di medicinali essenziali e tecnologie di base necessarie per la loro gestione; l’aggiornamento delle politiche nazionali esistenti riguardo l'Epilessia e gli altri disturbi neurologici, con idonee campagne di sensibilizzazione e programmi di advocacy; la realizzazione di programmi intersettoriali destinati alla promozione della salute del cervello e alla prevenzione dei disturbi neurologici; lo sviluppo di un’idonea legislazione al fine di promuovere la lotta allo stigma e proteggere i diritti umani delle Persone con Epilessia.

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di Rossella Gemma

Un 'Patto per l'eliminazione dell'Epatite C' in Italia. Lo hanno presentato e firmato a Roma numerosi attori del Sistema Salute, che si sono confrontati sui risultati ottenuti finora dal programma di screening e sulle possibili soluzioni per contrastare nel modo più efficace l'epatite C nel nostro Paese.

È accaduto al termine dell'evento 'Epatite C: Obiettivo eliminazione, il momento è adesso. Strategie e modelli organizzativi per riscrivere la storia delle epatiti virali', a cui hanno preso parte decisori pubblici nazionali, regionali e territoriali, rappresentanti delle istituzioni, delle società scientifiche e dei pazienti, esperti e professionisti sanitari e sociosanitari.

Due le azioni al centro dell'incontro odierno promosso da Gilead Sciences: prorogare l'attuale programma di screening gratuito per l'epatite C a tutto il 2025, promuovendolo con maggior efficacia, ed estenderlo anche ai nati tra il 1948 ed il 1968, oltre all'attuale coorte di nascita 1969-1989, oggi considerata. Due azioni indispensabili e prioritarie secondo gli esperti riuniti questo pomeriggio nella Capitale per raggiungere l'obiettivo dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di eliminare questa infezione entro il 2030.

E sulla base dei dati presentati durante l'incontro, per metterle in pratica non sono necessari fondi aggiuntivi rispetto ai 71,5 milioni di euro già stanziati attraverso il Decreto Milleproroghe, per la maggior parte ancora non utilizzati, anche a causa della bassa adesione. Nel corso dell'evento, infatti, è emerso come la copertura dello screening abbia raggiunto solo l'11% della popolazione generale tra i 35 e i 55 anni.

"L'epatite C– ha spiegato la presidente dell'Associazione Italiana Studio del Fegato (Aisf), Vincenza Calvaruso– è una malattia infiammatoria del fegato causata dal virus Hcv. Nella maggior parte dei casi l'infezione evolve in epatite cronica, fibrosi, cirrosi e carcinoma epatico. Questo processo dura molti anni, durante i quali l'infezione resta silente. È quindi molto difficile stimare il cosiddetto sommerso e pertanto, per raggiungere l'obiettivo dell'eradicazione dell'epatite C, è essenziale in primo luogo non fermare il programma di screening ma continuare ad assicurarlo e implementarlo ovunque non sia ancora partito per tutte le popolazioni target".

Il programma di screening per l'epatite C è stato lanciato in Italia nel 2020, con l'intento di individuare le infezioni sommerse e trattarle precocemente, per ridurre la trasmissione del virus e l'incidenza delle gravi complicanze correlate. Il programma è destinato a tre popolazioni target: i nati tra il 1969 e il 1989, le persone seguite dai Servizi per le dipendenze (Ser.D.) e le persone detenute. Grazie allo stanziamento di 71,5 milioni di euro, dal 2020 al 2024 il nostro Paese ha continuato a implementare e rafforzare lo screening per l'Hcv con aggiornamenti legislativi e iniziative sanitarie.

"Lo screening- ha evidenziato il direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit), Massimo Andreoni- ha permesso di identificare ad oggi oltre 10.000 persone che non sapevano di avere l'infezione da Hcv e che in molti casi abbiamo potuto avviare al trattamento. Questi risultati sono stati ottenuti nonostante il programma abbia subito ritardi e in molte regioni non sia stato completamente implementato. Risultati che danno un importante segnale sulle potenzialità dello screening".

Per Massimo Andreoni "è fondamentale che venga prorogato, ampliato a fasce di popolazione più ampie, attivato in tutte le regioni e anche promosso con campagne di sensibilizzazione e comunicazione efficaci. Stiamo finalmente assistendo a una riduzione delle complicanze da epatite C, ma se lo screening dovesse venire interrotto, queste torneranno certamente ad aumentare, con un impatto inevitabile sul Sistema Sanitario Nazionale".

Secondo i dati del Report 'Eliminazione dell'Epatite C in Italia- Stato dell'arte e possibili nuove strategie regionali', realizzato da Isheo per Gilead Sciences, al 31 dicembre 2023 erano state testate oltre un milione di persone ed erano stati identificati oltre 10.000 casi di infezione da Hcv attiva. Un risultato senza dubbio importante ma di certo non sufficiente, anche considerando che il termine del programma di screening è previsto per la fine di quest'anno.

Presentato nel corso dell'evento, il documento contiene un'analisi dell'implementazione del programma di screening a livello nazionale e regionale, le stime del budget utilizzato e di quello rimanente, della numerosità della coorte 1948-1968, dei costi dell'eventuale ampliamento dello screening a questa popolazione e dei risparmi per il sistema sanitario.

Come anticipato, soltanto l'11% della popolazione generale della coorte 1969-89 è stata sottoposta a screening e la stima del budget rimanente rispetto al fondo stanziato è stata calcolata pari a 61.644.920 euro. Il numero di pazienti eleggibili allo screening con l'estensione alla popolazione 1948-68 è risultato pari a 31.539.490 e la copertura economica necessaria è stata stimata in 58.380.040 euro: una spesa quindi sostenibile, perché inferiore alla rimanenza dei fondi già stanziati.

"Per quanto riguarda lo screening nazionale finalizzato al raggiungimento degli obiettivi Oms- le parole del presidente EpaC Ets, Ivan Gardini- è necessario fornire alle regioni una certezza di stabilità sul lungo periodo, almeno fino al 2030, rendendo lo screening strutturale e non sperimentale come è attualmente, apportando tutte le modifiche normative del caso, concertate con regioni, società scientifiche e associazioni pazienti".

"È assolutamente auspicabile una strategia sanitaria globale sulla prevenzione delle infezioni trasmissibili- ha poi precisato- ma che possa trovare concrete possibilità di attuazione attraverso una solida base normativa ed economica, almeno per l'epatite C".

"Da oltre 20 anni Gilead Sciences è in prima linea nella lotta alle epatiti virali– ha concluso Frederico da Silva, VP e General Manager di Gilead Sciences Italia– con lo sviluppo di soluzioni che hanno migliorato radicalmente la vita dei pazienti e rivoluzionato la storia delle epatiti, in particolare dell'epatite C. Abbiamo dato un contributo significativo e vogliamo continuare a farlo, al fianco delle istituzioni nazionali, locali e di tutti i partner del sistema salute, andando oltre le terapie. Riteniamo fondamentale promuovere lo screening per far emergere le infezioni sommerse, affinché a tutti i pazienti siano garantite le stesse possibilità di cura e possa essere raggiunto l'obiettivo Oms di eliminazione dell'epatite C entro il 2030".
 
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di Rossella Gemma

La ricerca scientifica giunge a una svolta nel trattamento dell'obesità, che rappresenta una vera e propria patologia cronica con dati in continua crescita. Secondo il rapporto Istat, In Italia, nel 2021 la quota di sovrappeso nella popolazione adulta è pari al 36,1%, mentre le persone con obesità sono l'11,5%, con un trend in costante crescita. La novità terapeutica è rappresentata dalla molecola Tirzepatide, adesso disponibile in Italia, che potrà rivelarsi dirompente, considerato anche il ruolo dell'obesità nel determinare patologie metaboliche, cardiovascolari e oncologiche. Questa nuova molecola, unica nel suo genere, non solo aiuta a perdere peso, ma contribuisce anche a ridurre i principali fattori di rischio cardiovascolare.
 
Molte persone, in passato, hanno tentato, anche senza consulto medico, diversi programmi dimagranti, diete ed esercizio fisico, spendendo tempo e denaro, ma senza ottenere risultati duraturi; con l'approccio innovativo di Tirzepatide, a differenza di altri farmaci oggi disponibili che richiedono fino a cinque mesi per raggiungere una dose efficace, sono sufficienti solo quattro settimane per vedere i primi risultati concreti. Questo significa meno ansia legata ai continui cambiamenti di dosaggio e una gestione del trattamento molto più semplice, con una immediata motivazione che favorisce una maggiore adesione alla terapia, aiutando a rendere il percorso di perdita di peso più realistico e soddisfacente. Il tutto con un ottimo profilo di tollerabilità, senza effetti collaterali importanti.
 
In questi anni, la sfida di perdere peso è stata affrontata con diete, esercizio fisico, trattamenti che si sono conclusi senza risultati soddisfacenti, con la chirurgia bariatrica unico approccio realmente efficace, ma radicale e applicabile a una cerchia ristretta di persone. Con Tirzepatide si apre una nuova e straordinaria opportunità.
 
"Tirzepatide rappresenta un'innovazione farmacologica per la sua natura duale che permette a una singola molecola di agire su due recettori, Gip e Glp-1, riducendo il senso di fame e favorendo la perdita di peso- sottolinea Paolo Sbraccia, professore ordinario Medicina Interna, Dip. Medicina dei Sistemi, Università Tor Vergata, Direttore UOC Medicina Interna e Centro Medico dell'Obesità, Policlinico Tor Vergata- Nello studio clinico di fase 3 Surmount-1, il farmaco, in aggiunta alla dieta e all'esercizio fisico, ha dimostrato con il primo dosaggio di mantenimento di 5 mg (raggiunto dopo 4 settimane di trattamento) una riduzione del peso del 16% alla 72° settimana. Inoltre, con la dose di mantenimento massima di 15 mg, tirzepatide ha dimostrato una perdita di peso senza precedenti del 22,5%. Oltre alla riduzione del peso, questo farmaco offre benefici su pressione arteriosa, trigliceridi e altri fattori di rischio cardiovascolare. È indicato per tutti i pazienti con un indice di massa corporea superiore a 30, ma anche per le persone in sovrappeso, con un indice tra 27 e 29, o con un'altra complicanza dell'obesità, tipo l'ipertensione, i trigliceridi elevati, la sindrome delle apnee notturne".
 
L'obesità incide profondamente sullo stato di salute poiché si accompagna a importanti malattie e condizioni morbose che, in varia misura, peggiorano la qualità di vita e ne riducono la durata.
 
"Nonostante i progressi, l'obesità è ancora spesso ritenuta una condizione, un fattore di rischio, il risultato di stili di vita scorretti, e le persone affette vengono colpevolizzate. Si dimentica che invece l'obesità è una malattia legata alla mancata capacità dell'organismo di regolare il peso e il grasso corporeo per il mantenimento della salute- spiega Rocco Barazzoni, presidente Sio - Società italiana dell'obesità, Dipartimento Scienze Mediche Chirurgiche e della Salute, Ospedale Cattinara, Università di Trieste- In Italia i numeri sono in aumento, con l'11,5% di persone colpite, circa 6 milioni; se si aggiungono le persone in sovrappeso, si arriva quasi a metà della popolazione: si tratta quindi di un enorme problema di salute pubblica. L'obesità, inoltre, è una malattia sistemica, poiché ha un impatto negativo su tutti gli apparati e i sistemi dell'organismo: oltre che per malattie metaboliche come diabete, ipertensione, dislipidemie, l'obesità è un fattore di rischio anche per malattie oncologiche, cardiopatie, malattie renali, malattie epatiche, senza dimenticare le complicanze biomeccaniche, con difficoltà nel movimento, fragilità e disabilità che sopraggiungono soprattutto, ma non solo, in tarda età. L'impatto sociale ed economico dell'obesità è quindi molto rilevante, ma purtroppo non se ne prende piena consapevolezza, sottovalutando sia prevenzione che trattamento. Con adeguati interventi e investimenti lungimiranti si potrebbero ridurre complicanze, ospedalizzazioni, e trattamenti farmacologici per altre malattie".
 
Per questo la comunità scientifica auspica decisioni volte a tutelare la salute dei pazienti con tutti gli strumenti disponibili, considerando anche il valore di investimenti utili a prevenire trattamenti e ricoveri delle complicanze a cui sono soggette le persone con obesità.
 
"I farmaci innovativi contro l'obesità offrono grandi benefici, anche se i costi attuali restano significativi e non ancora coperti dal Servizio Sanitario Nazionale- evidenzia Luca Busetto, past president Sio, professore associato Medicina Interna, Università di Padova, Dip. Medicina Dimed, Centro per lo Studio e il Trattamento Integrato dell'Obesità, Azienda Ospedaliera di Padova- La prescrivibilità in regime privatistico aumenta il rischio di un uso non propriamente adeguato, legato più a motivi di estetica che di patologia. Viceversa la non rimborsabilità pone un problema di equità al SSN, considerando che l'obesità è maggiormente diffusa proprio nelle classi socioeconomiche più svantaggiate. Si rischia di perdere una grande opportunità, visti i risultati emersi dagli studi clinici che hanno dimostrato benefici anche su patologie cardiovascolari, diabete, apnee notturne. È pertanto auspicabile una politica di rimborso almeno parziale indirizzato ai soggetti che hanno un maggiore rischio per la salute: chi abbia già avuto un evento cardiovascolare, i pazienti con scompenso cardiaco, quelli con prediabete e con apnee notturne sono le popolazioni indicate dalla letteratura scientifica come meritevoli di una priorità. Sarebbe un investimento che consentirebbe di risparmiare fondi sui successivi trattamenti e ospedalizzazioni".
 
Prevalenza e incidenza dell'obesità attribuiscono al medico di medicina generale un ruolo fondamentale, visto l'elevato numero di pazienti che giunge alla sua attenzione.
 
"Ogni Medico Medicina Generale ha in carico in media circa 600 persone con un problema di eccesso di peso di cui circa 150 con obesità e 500 in sovrappeso- sottolinea Gerardo Medea, consigliere nazionale Simg, e responsabile della ricerca- Il nostro compito è anzitutto quello di contenere il problema obesità attraverso la prevenzione primaria e poi di intercettare questi pazienti, per coinvolgerli in un percorso di diagnosi e cura personalizzato (che tenga conto cioè della situazione clinica di ciascuno di essi), ma soprattutto continuativo, (trattandosi di una patologia cronica) e multiprofessionale (trattandosi di una patologia complessa). Bisogna, inoltre, condividere coi pazienti obiettivi di cura realistici sia per quanto riguarda lo stile di vita, sia per la terapia farmacologica. Alla auspicata presa in carico di questi pazienti si aggiunge oggi la disponibilità di farmaci innovativi, come tirzeparide, per il trattamento dell'obesità, efficaci e sicuri, prescrivibili anche dai medici di famiglia. Questo richiede una robusta attività di formazione dei medici di medicina generale affinché essi acquisiscano le competenze per poterli consigliare e prescrivere, anche in concertazione, quando necessario, con i centri di secondo e terzo livello", ha concluso il consigliere nazionale Simg.
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di Rossella Gemma

Il 10 ottobre 2024 ricorre la Giornata mondiale della vista, promossa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall'Agenzia Internazionale per la prevenzione della cecità (IAPB), con focus quest’anno sull’importanza della prevenzione oculare tra i bambini e i giovani.

"La prevenzione deve avvenire già alla nascita”, afferma il Presidente della Società Italiana di Neonatologia (SIN), Luigi Orfeo. “Periodo in cui possono essere presenti diverse patologie oculari potenzialmente invalidanti che oggi sono intercettate tempestivamente dagli screening visivi neonatali, garantiti a tutti i bambini che nascono nel nostro Paese, grazie all’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) nel 2017”.

Lo screening visivo viene eseguito nelle prime settimane di vita mediante il test del riflesso rosso e può prevenire alcune forme di ipovisione e cecità, poiché consente di individuare precocemente malattie oculari come la cataratta congenita, ancora oggi una delle principali cause di cecità nell’infanzia (colpisce da 1 a 6 su 10.000 nati vivi), e di intervenire in tempi rapidi. Relativamente frequente è anche il glaucoma congenito che ha un’incidenza di 1 su 10.000 nati vivi. Un’altra patologia oculare che, invece, può non essere presente alla nascita ma comparire nei primi mesi di vita e avere una prognosi sfavorevole è il retinoblastoma, con incidenza di 1 su 15.000-20.000 nati vivi.

“Il test del riflesso rosso è eseguito dal neonatologo nei primi giorni di vita e successivamente dal pediatra ai bilanci di salute,” continua il Presidente Orfeo. “È un valido screening per la precoce individuazione delle anomalie oculari in epoca infantile, non è assolutamente invasivo per il bambino e dura pochi minuti. In caso di risultato dubbio, si renderà necessaria la valutazione oculistica specialistica per diagnosticare una eventuale patologia”.

In un ambiente di crescita normale, con adeguate attenzioni e cure familiari, i bambini ricevono tutte le stimolazioni sensoriali necessarie affinché il cervello sia correttamente sollecitato, attraverso gli occhi, a percepire le immagini con le diverse caratteristiche, quali il colore, il contrasto di luce, il movimento degli oggetti, la varietà di forme e dimensioni ecc.

Esistono dei campanelli di allarme cui è importante fare attenzione per identificare precocemente alcune delle anomalie di sviluppo oculare. Infatti, se entro i 3 mesi di età il bambino non sa mantenere una fissazione stabile, oppure se compaiono movimenti anomali di oscillazioni involontarie degli occhi (nistagmo) o movimenti rotatori di esplorazione dello spazio senza finalità (movimenti di ricerca), o ancora la comparsa di deviazioni di un occhio (strabismo) dopo i 6-9 mesi di vita sono tutti motivi per una visita oculistica e ortottica.

Nei casi in cui, invece, vi sia una familiarità per alcune patologie oculari congenite quali cataratta e glaucoma congenito, strabismo o ambliopia (occhio pigro) nei genitori o nei fratelli maggiori, è indicata una visita oculistica entro i primissimi mesi di vita.

“Un’altra importante patologia oculare è la retinopatia della prematurità (ROP), che colpisce i neonati prematuri, soprattutto di età gestazionale inferiore a 31 settimane e/o con un peso inferiore a 1500 grammi”, conclude Orfeo. “La sua incidenza è progressivamente aumentata negli anni, in conseguenza della maggiore sopravvivenza dei neonati estremamente pretermine. Ma, grazie alla tecnologia, in continua evoluzione, anche la capacità diagnostica si è notevolmente ampliata, con una ricaduta positiva sulla gestione terapeutica e sul follow-up della malattia”.

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di Rossella Gemma

Italiani protagonisti al più importante Congresso mondiale dedicato alla radioterapia oncologica, con ben 8 studi presentati dal team della Radioterapia Oncologia dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi di Firenze, guidata dal professor Lorenzo Livi, noto anche per il suo impegno nella Fondazione Radioterapia Oncologica. Il gruppo di clinici e ricercatori del Careggi è presente - fra i pochissimi ospiti europei - alla 66esima edizione dell’Annual Meeting dell’American Society for Radiation Oncology (ASTRO), in corso a Washington. Tra gli studi presentati dal team italiano, di particolare interesse una ricerca sull’utilizzo dell’agopuntura come supporto della radio e chemioterapia nella prevenzione degli effetti collaterali nei pazienti con tumore testa-collo. Lo studio riveste una grande importanza perché riguarda la gestione della disfagia e della tossicità, purtroppo spesso legate ai trattamenti per questo tipo di tumori. Per questi pazienti, il carico sintomatico è ancora considerevole e spesso perdura a lungo, anche dopo la conclusione delle terapie. In particolare, l'insorgenza di disfagia rappresenta un fattore chiave di deterioramento clinico e malnutrizione, fenomeno che persiste nonostante l'adozione di strategie di supporto, quali esercizi preventivi di deglutizione e piani nutrizionali dedicati.
 

L’impiego di trattamenti radioterapici ha mostrato risultati promettenti nel miglioramento della funzione deglutitoria, ma l'esigenza di un approccio olistico alla cura del paziente - che integri interventi multidisciplinari di supporto - continua a crescere.

In tale contesto, lo studio presentato dal team italiano ha indagato l’integrazione dell’agopuntura con la radioterapia per la gestione della disfagia. Nello specifico, lo studio ha dimostrato che un ciclo di undici settimane di agopuntura, somministrato in concomitanza con il trattamento radioterapico, è risultato sicuro, portando a un miglioramento della qualità di vita dei pazienti, con particolare riferimento alla loro capacità di deglutizione.
 

"La radioterapia si conferma un’arma imprescindibile anche nel trattamento dei tumori del distretto testa-collo, che interessano aree estremamente delicate come il cavo orale, la faringe, la laringe, i seni paranasali e le ghiandole salivari" sottolinea Pierluigi Bonomo, dirigente medico presso il reparto di Radioterapia Oncologica dell’AOU Careggi di Firenze. "Queste neoplasie compromettono funzioni fondamentali come il parlare e la capacità di deglutire, con pesanti ripercussioni sulla qualità di vita dei pazienti. Lo studio che abbiamo presentato all’Annual Meeting di ASTRO potrà aprire nuove prospettive di cura in ambito oncologico, integrando il trattamento radioterapico o radio-chemioterapico con una pratica antichissima, quale l’agopuntura, a beneficio dei pazienti”.

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di Rossella Gemma

Per chi soffre di una malattia oncologica, il dolore è spesso una delle componenti più invalidanti: non solo una spia con cui l’organismo avverte della presenza di un problema, ma una vera e propria malattia che può manifestarsi in qualsiasi stadio del tumore, con un impatto fortissimo sul piano fisico e psico-emotivo e sulla stessa sopravvivenza del paziente. Si stima che circa il 50% dei malati oncologici soffra di dolore cronico, e fino al 90% dei pazienti nelle fasi di malattia più avanzate; inoltre in circa il 70% dei pazienti il dolore si manifesta anche con delle riacutizzazioni transitorie ma intensissime, note come Breakthrough Cancer Pain (BTcP) o dolore episodio intenso, una sorta di “dolore nel dolore” (cioè in aggiunta al dolore cronico di fondo) che causa un ulteriore peggioramento della qualità di vita. Curare il dolore è pertanto una priorità clinica ed etica per far vivere meglio e più a lungo i pazienti, che può avvalersi della disponibilità di farmaci oppioidi efficaci e sicuri. Tra questi, il Fentanyl, un farmaco da decenni impiegato in ambito anestesiologico e uno degli analgesici oppioidi più utilizzati al mondo per trattare il dolore in forma grave, specialmente in oncologia.

A richiamare l’attenzione sull’importanza di un’adeguata gestione del dolore nei pazienti oncologici (e non solo), ancora troppo spesso trascurato se non ‘relegato’ a una condizione inevitabile della malattia oncologica, e sul ruolo terapeutico insostituibile dei farmaci oppioidi nella terapia del dolore, sono stati gli esperti intervenuti a Milano all’incontro “Gestione del dolore e oppioidi. Gli usi terapeutici dei farmaci oppioidi verso consumi illegali”, organizzato grazie al contributo non condizionante di Istituto Gentili. E proprio dagli esperti arriva il monito a evitare che l’innalzamento dell’attenzione mediatica sull’uso illecito del Fentanyl come sostanza stupefacente condizioni la percezione dell’opinione pubblica su un farmaco indispensabile per il trattamento del dolore, a garanzia dell’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore e a tutela della dignità della persona, come sancito dalla legge 38 del 15 marzo 2010.“Il dolore oncologico non è esclusivo della malattia in stadio avanzato, ma si manifesta in ogni momento della malattia, nelle sue tre componenti: quella biologica, rappresentata dal dolore fisico vero e proprio, quella psico-emozionale, legata ad ansia, depressione, insonnia e ad altre alterazioni del tono dell'umore, e quella sociale, data dalle limitazioni funzionali nella vita quotidiana”, afferma Arturo CuomoDirettore S.C. Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica, Istituto Nazionale Tumori - IRCCS Fondazione Pascale, Napoli“Ne consegue che il trattamento del dolore è un aspetto prioritario per i pazienti, per i benefici sulla qualità di vita ma anche su una migliore aderenza alle terapie. La terapia del dolore deve essere ritenuta a tutti gli effetti una terapia adiuvante alla cura del tumore, che può contribuire ad ottimizzare le terapie antitumorali e ad aumentare la sopravvivenza”.

L’utilizzo dei farmaci oppioidi, cioè molecole in grado di produrre analgesia nel momento in cui i sistemi endogeni non sono più sufficienti a proteggerci dal dolore, rappresenta una strategia terapeutica fondamentale per il trattamento del dolore, come evidenziato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalle linee guida delle principali società scientifiche nazionali e internazionali.

Fentanyl, in particolare, appartiene ai cosiddetti “farmaci del terzo scalino” secondo la scala analgesica dell’OMS, e ha una potenza analgesica di circa cento volte superiore alla morfina: maggiore è la potenza analgesica, minore sarà la dose di farmaco necessaria per ottenere l’effetto terapeutico. Ne è la conferma l’inserimento, da parte dell’OMS, nella lista dei farmaci essenziali per il trattamento del dolore nei pazienti affetti da tumore.

“Fentanyl è la molecola analgesica più potente che abbiamo a disposizione nella pratica clinica, indicata nel trattamento del dolore moderato-grave di natura oncologica e non, e le sue caratteristiche uniche ne fanno la soluzione migliore per curare il dolore episodico intenso oncologico”, spiega Diego Fornasari, Professore ordinario di Farmacologia, Università degli Studi di Milano e Presidente Eletto dell’Associazione Italiana per lo Studio del Dolore (AISD). “Inoltre, rispetto ad altri farmaci, Fentanyl ha una spiccata liposolubilità ed è quindi in grado di entrare nell’organismo attraverso vie di somministrazione che garantiscono un’azione immediata della molecola, per esempio per via transdermica, con un cerotto - permettendo di curare anche i pazienti che non possono deglutire a causa della malattia -, sotto forma di spray nasale, sotto la lingua. Lo spray nasale ha una velocità e un’efficacia di azione paragonabile alla somministrazione endovena, rappresentando una soluzione ottimale per i pazienti che soffrono di attacchi di dolore episodico che possono manifestarsi in ogni momento. Infine, il farmaco viene rapidamente metabolizzato una volta assorbito a livello intestinale: ha un’emivita breve, di circa due ore, e tende a non accumularsi in circolo”.

“Il Fentanyl è un farmaco analgesico estremamente prezioso per la cura del dolore oncologico; è un farmaco molto potente ma anche molto sicuro, di cui non bisogna avere timore se ci si affida al controllo medico”, aggiunge Vittorio Guardamagna, Direttore Cure Palliative e Terapia del Dolore dello IEO (Istituto Europeo di Oncologia), Milano“I pazienti che necessitano del Fentanyl per il controllo del dolore non rischiano di andare incontro a gravi effetti collaterali ma possono sperimentare sintomi minori come mioclonie, cioè tremori, un po’ di sonnolenza, stipsi, che possono essere gestiti adeguatamente e senza rischi con appositi farmaci oppure adeguando il dosaggio della terapia”.

“Il trattamento del dolore è un imperativo etico, tra l’altro sancito nel nostro ordinamento dalla legge 38/2010 e dalla legge 219/2017 sul ‘biotestamento’”, dichiara Franco Marinangeli, Professore ordinario di Anestesia e Rianimazione, Università degli Studi de L’Aquila e Direttore del Dipartimento Emergenza e Accettazione ASL 1 Abruzzo. “Rispetto a quindici anni fa, è aumentata la consapevolezza nella classe medica dell’importanza e della sicurezza di questo strumento per la cura del dolore, non solo nel paziente oncologico, anche se ci sono ancora diversi aspetti da migliorare. Un aspetto importante da sottolineare nello scenario nazionale è il ruolo svolto dalla classe medica a garanzia dell’appropriatezza d’uso del Fentanyl come di tutti i farmaci oppioidi. I medici prescrittori vigilano sulla terapia e rivalutano periodicamente dosaggio e modalità di assunzione dei farmaci analgesici. Anche perché l’efficacia della terapia del dolore dipende dall’adattamento al singolo caso, in una modalità che si potrebbe definire “su misura”.

“La terapia del dolore rappresenta una delle condizioni più rilevanti per migliorare la qualità della vita dei pazienti oncologici, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, ma resta ancora un bisogno clinico fortemente insoddisfatto”, dichiara Maria Cristina Mazzotta, HQ Medical Director, Istituto Gentili. “Come azienda che ha scelto di focalizzarsi in maniera prevalente in oncologia per rispondere ai bisogni delle persone che convivono con gravi neoplasie, Istituto Gentili è impegnata a mettere a disposizione di medici e pazienti terapie oncologiche e cure di supporto sicure ed efficaci. Una mission che perseguiamo anche attraverso iniziative di informazione e sensibilizzazione sul tema del dolore, affinché sempre più pazienti possano intraprendere il giusto percorso di cura”.

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di Rossella Gemma

In occasione della Giornata mondiale del Cuore, che si celebra il 29 settembre, Fondazione Onda ETS, per il quarto anno consecutivo, organizza dal 26 settembre al 2 ottobre l’(H) Open Week dedicato alle malattie cardiovascolari con l’obiettivo di promuovere l’informazione, la prevenzione e la diagnosi precoce di queste malattie, con un particolare focus su aneurisma aortico addominale, infarto cardiaco, patologie valvolari, carotidee e venose.

Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte nel nostro Paese, essendo responsabili del 35,8 per cento di tutti i decessi: 38,8 per cento nelle donne e 32,5 per cento negli uomini; si presentano nelle donne con un ritardo di almeno dieci anni rispetto agli uomini, poiché le donne fino alla menopausa sono protette dallo “scudo” ormonale degli estrogeni. In seguito, vengono colpite addirittura più degli uomini da eventi cardiovascolari, spesso tra l’altro più gravi, anche se si manifestano con un quadro clinico meno evidente.

Per entrambi i sessi resta però cruciale il ruolo della prevenzione primaria, legata principalmente agli stili di vita, e della diagnosi precoce, in particolare in coloro che presentano fattori di rischio cardiovascolare, quali: familiarità, età avanzata, fumo, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete, sedentarietà, sovrappeso, obesità, stress.

«L’alto valore sociale di queta iniziativa ha, inoltre, come obiettivo quello di sottolineare l’importanza della prevenzione primaria e facilitare l’accesso alla diagnosi precoce, rendendo direttamente fruibili anche prestazioni che in molti casi sono gravate da lunghe liste di attesa. Inoltre, vogliamo sfatare l’errata convinzione che le malattie cardiovascolari riguardino soprattutto gli uomini, con la grande maggioranza delle donne che ha una percezione molto bassa dei pericoli correlati a queste patologie. Dato il grande successo e l'alto numero di richieste degli anni scorsi, abbiamo deciso di replicare il focus della settimana di servizi gratuiti su problematiche cardiache molto diffuse e ancora spesso sottovalutate o non conosciute dalla popolazione come l’aneurisma aortico addominale, l’infarto cardiaco e le patologie valvolari e di ampliare anche alle patologie carotidee e venose per proporre una settimana per la salute del cuore, delle arterie e delle vene», commenta Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda ETS.

Le oltre 150 strutture del network Bollino Rosa che hanno aderito all’iniziativa offriranno gratuitamente visite specialistiche ed esami diagnostici, eventi e colloqui, info point e distribuzione di materiale informativo nelle aree specialistiche di cardiochirurgia, cardiologia e chirurgia vascolare.

Tutti i servizi offerti con indicazioni su date, orari e modalità di prenotazione sono consultabili sul sito www.bollinirosa.it. È possibile selezionare la regione e la provincia di interesse per visualizzare l’elenco degli ospedali aderenti e consultare i servizi offerti.

Fondazione Onda ETS dal 2007 attribuisce agli ospedali che erogano servizi dedicati alla prevenzione, diagnosi e cura delle principali patologie femminili il riconoscimento del Bollino Rosa. Il network, composto da 361 ospedali dislocati sul territorio nazionale, sostiene Fondazione Onda ETS nel promuovere, anche all’interno degli ospedali, un approccio “di genere” nella definizione e nella programmazione strategica dei servizi clinico-assistenziali, indispensabile per garantire il diritto alla salute non solo delle donne ma anche degli uomini.

L’iniziativa è realizzata con il patrocinio di GISE - Società Italiana di Cardiologia Interventistica, SICCH - Società Italiana Chirurgia Cardiaca, SICVE - Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare, SIF - Società Italiana di Flebologia, SIMG - Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie, SIPREC - Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare, con la media partnership di Adnkronos, Baby Magazine, Panorama della Sanità, Salutare e Tecnica Ospedaliera e con il contributo incondizionato di Medtronic.

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di Rossella Gemma

C’è la pandemia dimenticata dell’Hiv. E poi c’è l’epatite C, che entro il 2030 potrebbe essere eliminata, ma oggi, secondo alcuni studi, uccide ancora 19 persone ogni 24 ore soltanto in Italia. Due infezioni virali che nell’immaginario collettivo, per molti, sono superate, e invece, per essere debellate davvero, richiedono azioni concrete. Di questo, e molto altro, si è parlato alla Summer School di Motore Sanità. Con un confronto tra espertii sulle linee guida nazionali e sulla loro attuazione. Analizzando le best practice di alcune Regioni, ma evidenziando anche carenze e punti di debolezza del sistema salute.

Hiv, la pandemia dimenticata: come fermare l’infezione?

Per quanto riguarda l’Hiv – è emerso nel convegno organizzato con il contrubuto incondizionato di Gilead - lo scenario attuale, caratterizzato dalla rivisitazione del modello organizzativo e gestionale del SSN in attuazione del PNRR e dalla proposta di rivisitazione della Legge 135 del 1990, determina la necessità di porre attenzione alle criticità ed alle dinamiche che impediscono una piena implementazione del Piano Nazionale AIDS.  Il 26 ottobre 2017, la Conferenza Stato-Regioni sanciva l’intesa sul “Piano Nazionale di interventi contro HIV e AIDS (PNAIDS)”, un Piano molto sfidante e dalla dichiarazione di intenti molto alta, che ha inteso delineare il miglior percorso possibile per conseguire, anche a livello nazionale, gli obiettivi indicati come prioritari dalle agenzie internazionali (ECDC, UNAIDS, OMS).

Le risorse poste nelle ultime leggi di bilancio per stimolare e supportare la ricerca scientifica non sono ancora sufficienti, ma è comune e diffusa la volontà politica di proseguire a liberare ulteriori risorse e strumenti per la ricerca. Anche se occorre un cambio di passo, come ha sottolineato Sandro Mattioli, Presidente Plus Persone LGBT+ sieropositive.  “Da troppi anni – afferma – stiamo riscontrando grandi difficoltà a rimpiazzare la legge 135 che risale al 1990. E ci sono alcune proposte di legge, redatte in collaborazione con i pazienti e con i clinici, ma giaggiono in Parlamento dopo mesi di revisione”.

Secondo Mattioli, “sembra che non ci sia interesse dalla parte politica”. In generale, ragiona ancora il presidente di Plus Persone LGBT+ sieropositive, “rispetto alle best practice su Hiv ed epatite C, ci sono ancora delle difficoltà di ordine logistico-organizzativo: inserire cose nuove nelle procedure  organizzative di Aziende sanitarie e Aziende ospedaliere è complicatissimo. Nel nostro Paese – prosegue Mattioli - passa parecchio tempo prima che una scoperta scientifica arrivi nella pratica clinica, soprattutto se parliamo di pratiche di buon livello”. Mattioli pensa ad esempio “alla  prep, approvata dal FDA nel 2012, ma arrivata da noi con tutto comodo, con Aifa che ha autorizzato il pagamento nel 2017. Quindi, chi aveva i soldi faceva la Prep, chi no, doveva stare attento”.  Poi, nel 2013, “è andata a rimborso, ma solo se prescritta dall’infettivologo, solo nel suo ambulatorio di malattie infettive, ritirabile solo nelle farmacie ospedaliere, come se la gente non lavorasse e avesse facilità di prendere permessi sul lavoro”. Insomma: “Le best practice ci sono, ma in Italia si fa molta fatica a realizzarle”.

L’epatite C uccide ancora 19 persone al giorno e ci sono 280mila casi sommersi, ma l’Italia può eliminarla entro il 2030

Secondo Polaris Observatory, ogni giorno, in Italia, 19 persone muoiono a causa dell’epatite C (HCV), una malattia che potrebbe essere debellata entro il 2030 grazie a uno screening universale e ai progressi nei trattamenti farmacologici.  L’obiettivo di eliminare l’HCV entro i prossimi sei anni è stato fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e per l’Italia si tratta di un traguardo ambizioso, ma possibile, a patto di intensificare le attività di screening su tutta la popolazione, in particolare sugli over 60, la fascia d’età che raccoglie la maggior parte dei casi sommersi che si stima possano essere 280mila.

I dati sullo screening in Italia

In Italia, grazie agli sforzi del Ministero della Salute e alle direttive nazionali, sono stati eseguiti finora circa 1,7 milioni di test, identificando 13.000 infezioni attive, ovvero lo 0,77% della popolazione testata. Le percentuali variano sensibilmente a seconda del gruppo esaminato: se nella popolazione generale il tasso di infezione scende allo 0,15%, (2.314 casi su 1,5 milioni di screening), tra gli utenti dei Servizi per le Dipendenze (SerD) la percentuale sale all’8,6% (8.504 casi identificati su poco più di 99.000 test effettuati). Tra i detenuti, poi, la percentuale di infezione attiva arriva allo 0,77%.

È importante notare che un terzo degli screening è stato effettuato in Lombardia, una delle regioni che ha attivato più rapidamente ed efficacemente il programma di prevenzione. Seguendo le linee guida ministeriali, è stato attivato uno screening su larga scala, con un focus sui nati tra il 1969 e il 1989. Le persone incluse in questa coorte sono state invitate a sottoporsi a un test anticorpale gratuito, semplicemente presentandosi presso un punto prelievo. A luglio 2024, circa 482.000 persone, pari al 16% della coorte, avevano aderito, con notevoli differenze di partecipazione tra i vari territori. Su questi 482.000 test, 2.438 sono risultati positivi.

A oggi, 14 regioni hanno avviato lo screening sulla popolazione generale, mentre altre risultano ancora indietro.

Un piano ambizioso per il 2030

Eliminare l’HCV è un obiettivo realistico, grazie anche ai farmaci di ultima generazione che permettono di trattare con successo quasi tutti i casi di infezione. Tuttavia, resta essenziale rafforzare le strategie di prevenzione e diagnosi, per evitare che l’80% delle persone esposte al virus sviluppi una forma cronica della malattia, che può portare a complicazioni gravi, come cirrosi o cancro al fegato. Nel mondo, ogni anno, l’HCV infetta circa 2,5 milioni di persone, con oltre 200 milioni di individui già colpiti dal virus, 170 milioni dei quali convivono con una forma cronica. L’Italia, tra i Paesi occidentali, ha fatto notevoli progressi, eseguendo circa 300.000 trattamenti contro l’HCV. Tuttavia, resta un problema importante: si stima che ci siano ancora circa 280.000 persone nel Paese che convivono con l’infezione in forma asintomatica e non diagnosticata, rendendo essenziale l’espansione del programma di screening.

Giovanni Cenderello, direttore SC Malattie Infettive Asl 1 Imperiese Sanremo e presidente Simit Regione Liguria: “Per fare emergere il sommerso di contagi di epatite C che ancora esiste in Italia e raggiungere gli obiettivi dati dal WHO 20-30, è necessario un lavoro di squadra tra i medici di medicina generale, che sono coloro che hanno in gestione i pazienti, i medici ospedalieri prescrittori, gastroenterologi e infettivologi, e i medici non specialisti di che potrebbero vedere questi pazienti in altri contesti”. Per quanto riguarda l’HIV, Cenderello pone l’accento sulle patologie indice. “C’è un documento condiviso Simit-Simeu che prevede di utilizzare le patologie indice per iniziare lo screening fin dal Pronto Soccorso in cui il paziente accede per un’altra patologia non direttamente HIV correlata ma che può far sospettare la patologia stessa. Attuare questo piano, dando attuazione concreta al documento, permetterebbe di ridurre la quota ancora inaccettabile di pazienti advanced naive, ossia in AIDS conclamato, che si presentano nei ricoveri ospedalieri”.

Le best practice: il caso del Veneto

La Regione del Veneto, già con la deliberazione della giunta regionale n. 791 del 08 giugno 2018, ha avviato un programma di eliminazione dell'epatite C (HCV) e l’Istituzione di una Cabina di regia. Lo screening, attivo a partire dal 16 Maggio 2022, è destinato a tutte le persone nate tra il 1969 e il 1989 e ad alcune popolazioni selezionate, quali i soggetti seguiti dai Servizi per le Dipendenze ed i detenuti .

Si può effettuare il test in occasione di un accesso alle strutture sanitarie (ad esempio, ricovero ospedaliero, intervento in day hospital, visita specialistica, accesso ai laboratori del Servizio Sanitario Regionale-SSR) o dopo un confronto con il proprio medico curante. E’ poi possibile presentarsi direttamente presso i laboratori identificati dall’Azienda Sanitaria, senza impegnativa. In alternativa, si può aspettare di ricevere l’invito ad effettuare il test, seguendo le indicazioni che verranno fornite dalla propria ULSS.

In caso di positività al test di screening, il personale sanitario dell’ULSS contatterà il soggetto per gli ulteriori approfondimenti e organizzerà una visita presso il centro specialistico di riferimento. Tutto il percorso è gratuito, senza necessità di pagare il ticket. I costi del percorso di screening HCV sono, infatti, interamente coperti dal SSR.