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di Alberto Volponi

L’isolamento cui siamo stati costretti nelle varie fasi della pandemia ha prodotto diffusi danni alla salute di una larga parte della popolazione. Sono aumentati gli stati ansioso-depressivi con un'impennata di consumo dei relativi farmaci e implementazione dell'attività degli addetti alla filiera della psiche: psicologi, psicoanalisti, psicoterapeuti, psichiatri. Un fenomeno così diffuso e allarmante da spingere le forze politiche a un accordo per un bonus psicologico (uno più uno meno!) con uno stanziamento di 50 milioni, anche se, alla fine, della corrispondente posta nel bilancio 2022 non vi è traccia! Si sono registrati molti disturbi alimentari con il pendolo oscillante fra casi di bulimia e anoressia di vario grado, obesità, disturbi metabolici. Anche l'attività sessuale ha avuto un netto calo, tanto che una delle più grandi fabbriche di preservativi, la Karex, ha deciso di riconvertire parte della produzione in guanti di gomma. E pensare che una volta si rideva con l'esilarante commedia “No sex please, we're british” (niente sesso siamo inglesi), una commedia degli equivoci, delle allusioni, dei doppi sensi, come sarebbe piaciuto a un romano d'altri tempi, Plauto, che Garinei e Giovannini importarono da Londra e misero in scena, siamo nel 1972, nel glorioso Sistina con Johnny Dorelli e Bice Valori. A questa riduzione dell'attività sessuale è in parte addebitato anche il nuovo crollo della natalità, con qualche fondata preoccupazione per specialità mediche come l'ostetricia e la pediatria, mentre avanza la geriatria, specialità relativamente giovane che, come sappiamo, si interessa delle persone all'altro capo del percorso terreno, gli anziani. La curva delle nascite è da anni, soprattutto in Italia, in fase fortemente calante. La curva comincia a declinare negli anni ‘70. Il dato delle nascite dopo essersi attestato negli anni ‘50/60 sui novecentomila nati, con una punta di un milione sedicimila nel ‘64, scende, in maniera inarrestabile, fino ai nostri giorni: nel 2020 sono nati in Italia 404.000 bambini e nel 2021 il dato finale si attesta sui 390mila. Il fenomeno della denatalità non può essere attribuito esclusivamente a motivazioni sociologiche. Certamente le condizioni di lavoro delle donne, la insufficienza dei servizi sociali, la mancanza di politiche di sostegno alla natalità e più in generale alla famiglia hanno il loro peso ma crediamo che questi non siano i veri o almeno gli unici motivi. Se così fosse non troverebbe spiegazioni come il dato della diminuzione delle nascite è da tempo più marcato nelle aree del Paese dove maggiore è il benessere economico con una rete di servizi sociali sicuramente più efficiente. La stessa curva decrescente della natalità procede in senso inverso rispetto a quella crescente del benessere economico e sociale del nostro Paese. Crediamo di poter dire che, in gran parte, la motivazione del preoccupante fenomeno ha un carattere culturale, antropologico nella sua accezione più ampia, che vede il nostro essere assumere una dimensione sempre più marcatamente individualistica, alla ricerca della realizzazione della propria persona al di fuori dei modelli e delle forme tradizionali. Da qui la crisi dell'istituto del matrimonio, del superamento del rapporto di complementarietà fra l'uomo e la donna così come teorizzato da Gina Lombroso, medico, scrittrice, protagonista nel primo novecento del dibattito sulla condizione femminile, nel suo: “L'Anima delle donne”. La maternità che, afferma la Lombroso, figlia, fra l'altro, del famoso Cesare, è indotta da un istinto altruistico, sembra oggi, grazie anche alle soluzioni offerte dalla moderna genetica e dalle tecniche di procreazione, per cui, tutto ciò che è tecnicamente possibile diventa eticamente accettabile, l'appagamento di un personale desiderio. Stiamo in verità assistendo, e in qualche misura ne siamo attori, a una trasformazione del nostro essere che vira sempre più verso l'affermazione dell'”Io”, in una società dove il “noi” è sempre più residuale così da essere sempre meno disposti all'accoglienza sia di una nuova vita, sia verso l'anziano lasciato in compagnia della sua solitudine, nei confronti del soggetto fragile o di chi viene da lontano ed è diverso da noi solo nei caratteri somatici. Anche il netto calo delle adozioni, al di là delle difficoltà burocratiche che pur vi sono, è legato a questa nostra nuova dimensione esistenziale. L'istituto dell'adozione sopravvive a favore degli animali, in particolare i cani. Migliaia di cani hanno trovato un padrone, più spesso una padroncina. Durante il lockdown si sono svuotati i canili. Quello di Segrate, uno dei più grandi d'Italia, in un anno ha dato una casa a 329 cani, quasi una al giorno. Così, sempre per seguire il borsino delle professioni sanitarie, quella veterinaria si è rilanciata alla grande. Periodo aureo per i veterinari e i fabbricanti di croccantini, anche se, purtroppo, crediamo che non tarderà a venire, di nuovo, il tempo dei canili che torneranno a riempirsi passata la ventata cinofila. Ma il lockdown qualcosa di buono ci consegna: una riduzione delle patologie cardiovascolari. Non è poca cosa! Nel 2020 mancano all'appello 15mila infarti del miocardio. è l'Agenas, l'Agenzia sanitaria nazionale delle Regioni, a darci questo confortante dato e a dirci, anche, come la tendenza a una progressiva riduzione degli episodi infartuali, già evidenziata negli anni precedenti con una diminuzione annuale del 2%, frutto certamente di campagne contro il fumo, la sedentarietà, una migliore alimentazione, è scesa di colpo del 14%, un dato che ha altre ragioni. Ragioni strettamente collegate al Lockdown che ha favorito un miglioramento della qualità dell'aria grazie alla riduzione delle polveri sottili. Da tempo è scientificamente provato la correlazione fra le PM, particelle prodotte dalla combustione delle auto, industrie, riscaldamenti domestici, che attraverso l'aria che respiriamo giungono nei nostri polmoni e, superando la barriera alveolo-polmonare, vanno in circolo innescando processi infiammatori a carico dei vasi così da provocare alterazioni delle pareti arteriose con conseguenti infarti a valle dell'arteria interessata. L'inquinamento, quindi, come trigger (innesto) per l'infarto. La stretta correlazione inquinamento-infarto è confermata dal dato registrato in alcune aree del Paese, meno fortunate, dove l'inquinamento da polveri sottili non si è ridotto durante il lockdown - questo fenomeno meriterebbe un serio approfondimento sulle sue reali cause - anzi si è accentuato e, in maniera proporzionale ma coerente, vi sono stati un maggior numero di infarti, il tutto in controtendenza rispetto al dato nazionale. L'altro grande nemico del nostro cuore è lo stress che, attraverso la produzione di sostanze adrenergiche, determina una vasocostrizione, con conseguente innalzamento della pressione arteriosa, tachicardia, condizioni che finiscono con aumentare l'impegno del muscolo cardiaco e favorire un episodio infartuale. Studi più recenti evidenziano un ruolo dell'amigdala, l'area “emozionale” del cervello, che inciderebbe sulla produzione di cellule infiammatorie da parte del midollo osseo, con conseguenti formazioni di placche aterosclerotiche e trombi occludenti i vasi. Se la correlazione cuore-cervello è sempre più stretta, il lockdown ha ridotto le cause dello stress in particolare a quello legato ai ritmi di lavoro, agli spostamenti nel traffico, alle varie incombenze spesso accompagnate, nella fretta di assolverle, da ansia. Tutte condizioni che Arbore si è divertito a elencare nel suo brano “Ma la notte no!” colonna sonora dell'indimenticabile programma televisivo “Quelli della notte”. Per combattere, poi, “il logorio della vita moderna” una volta ci si affidava al consiglio di un impassibile Ernesto Calindri che, tranquillamente seduto in mezzo a un mare di automobili, invitava a bere un Cynar! Questa pandemia, che speriamo sia ormai ai titoli di coda di una rappresentazione altamente drammatica che nessuno potrà dimenticare, ci sta dando numerose  lezioni di cui dovremmo fare tesoro: l'importanza di un servizio sanitario pubblico ma anche i suoi deficit organizzativi e gestionali a cui mettere riparo; la necessità di una lotta seria all'inquinamento che ha dimostrato un forte legame con la diffusione del virus; l'adozione di nuovi stili di vita. Almeno  per questa ultima indicazione, che ha una valenza altamente soggettiva, dovremmo far nostro un vecchio proverbio, ancorché cinese: “Il segreto di vivere a lungo è mangiare la metà, camminare il doppio, ridere il triplo e amare senza misura”.

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del dott. Alberto Volponi

A ogni emergenza, negli anni passati, si è sempre invocato un nuovo piano Marshall visto il successo del programma di ingenti aiuti che gli Stati Uniti, all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, riversarono sull'Europa. L'ideatore fu il Segretario di Stato George Marshall che riteneva indispensabile, per favorire una ricostruzione dei paesi europei devastati dalla guerra, stanziare dei fondi: 12,7 miliardi di dollari. Siamo nel 1947: ne beneficiarono 16 Paesi dell'Europa dell'Ovest, la cortina di ferro si stava già alzando, e fu esclusa la Spagna che non aveva partecipato alla guerra ma anche perché era una dittatura con a capo il Caudillo Franco. All'Italia furono assegnati 1,5 miliardi nell'arco di 4 anni, 1948-52, e con essi si realizzarono opere fondamentali e si erogarono finanziamenti essenziali per la ripresa economica. Furono costruite case per le 3000 famiglie, o quello che rimaneva, che erano rimaste senza, a causa del terremoto di Messina del 1908! Sembra una prerogativa tutta nostra impiegare almeno mezzo secolo per ridare un tetto a terremotati o alluvionati! Quel miliardo e mezzo corrisponderebbe oggi - il conteggio non è semplice - a 160 miliardi di euro. Ora  l'Europa ci mette a disposizione 222 miliardi. Una non trascurabile differenza - e ce ne sarebbero ben altre con il piano Marshall - è che quei finanziamenti erano a fondo perduto e di un altro generoso Paese; questi sono soldi dell'Europa, quindi nostri, che in parte vanno restituiti. Il richiamo allora al famoso piano è puramente evocativo. Le risorse saranno allocate dal PNRR, piano nazionale di ripresa e risilienza. Di questo acronimo si poteva fare a meno dell'ultima R, resilienza. Il termine, di origine latina, sempre più di moda come spesso accade ad alcuni vocaboli che improvvisamente irrompono nel nostro parlare comune, destinati altrettanto velocemente all'oblio, vuol dire: “capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi”. Insomma il contrario del “mi spezzo ma non mi piego”, il “frangar non flectar” orgogliosamente declamato da Orazio. Un termine fin'ora confinato nel lessico della scienza, in particolare della fisica, e ora in voga nel suo significato figurato sconosciuto ai più. Al di là di tutto rimane l'interrogativo: questi euro, tanti, sapremo spenderli? Una consistente parte di questa massa di denaro sarà gestita dagli enti territoriali  la cui insufficienza delle strutture amministrative è ben nota, in particolare in alcune aree del Paese che è pleonastico menzionare. A tal proposito ha suscitato non poco clamore il fatto che il Ministero dell'Agricoltura abbia respinto ben 31 progetti, ovvero tutti, presentati dalla Regione Sicilia per impianti di irrigazione. Il PNRR per ovviare, o almeno tentare, alle carenze della pubblica amministrazione, prevede l'assunzione di personale qualificato: ma si riuscirà a reperirlo preparato come si vorrebbe e come sarebbe necessario? Il Ministero competente ha già indetto un bando, scadenza 31 dicembre, per mille supertecnici, ingegneri, esperti in varie materie, dal digitale all'ambiente. Cerchiamo di non essere pessimisti e di non pensare più ai 3000 navigator. Per la sanità sono destinati poco più di 20 miliardi. In programma la costruzione di 1350 case di comunità e 1200 ospedali di comunità. Per le case di comunità il modello di riferimento è quello tosco-emiliano-veneto. Tali strutture, in media ogni 40-50mila abitanti, sarebbero destinate a pazienti cronici e in esse opererebbero  medici di medicina generale, a cui affidare l'inquadramento diagnostico e il piano terapeutico, e gli infermieri, con un ruolo assistenziale più incisivo. Anche nei 1200 ospedali di comunità la centralità dell'assistenza sarebbe assegnata agli infermieri mentre un medico, sempre di medicina generale, assicurerebbe una presenza di 3 ore al giorno. Si sta, invero, disegnando induttivamente un nuovo modello organizzativo del SSN che ha, nella sua realizzazione, la forza propulsiva dei fondi disponibili. Ci si muove, come spesso accade, senza una visione complessiva del sistema sanità. Il rischio è che si creino nuove strutture prima ancora di razionalizzare l'attuale rete ospedaliera e ambulatoriale, raggruppando a rete gli ospedali esistenti o riducendoli di numero, così che il piano rischia di risolversi in un progetto di investimenti in edilizia sanitaria, ben poco funzionale se non  integrata con la realtà esistente. C'è, infatti, un altro nodo che non è stato affrontato: quello del personale. Solo per le necessità degli ospedali e delle case di comunità, l'Agenas prevede l’assunzione di 33mila nuovi infermieri. Per far fronte al funzionamento complessivo del nuovo sistema, così come ridisegnato, secondo il Crea dell’Università di Tor Vergata, sarebbe necessario assumere, a regime, dai 162mila ai 272mila infermieri. Ora i corsi di laurea in Scienze infermieristiche prevedono16 mila posti l'anno, nemmeno sufficienti a coprire il normale tournover pensionistico. La prova, ulteriore, che abbiamo una carenza è confermato da questo dato: operano, in Italia, 38mila infermieri stranieri e si rivedono in corsia, le “suorine”, questa volta filippine o indiane, sicuramente preparate e sempre sorridenti che ci fanno tornare indietro nel tempo quando le nostre suore ”tenevano”,  e bene, il reparto. Analogo discorso per i medici: carenze enormi, già oggi, negli organici ospedalieri, nella medicina specialistica e in quella generica. Per il personale medico si profila un'altra criticità: il modello di sanità che si sta delineando prevede, necessariamente, una revisione dei rapporti di lavoro e un superamento del regime delle convenzioni. Ma questo aspetto, non certo marginale, non viene affrontato con l'organicità e la chiarezza di idee necessarie. Se da una parte è urgente procedere a trovare fondi per nuove assunzioni, ricordando come non vi sono, per questo, risorse nel PNRR e né sono previsti nel bilancio dello Stato, rimane il problema della formazione. Sul banco degli imputati, per la carente programmazione formativa è stata posta sempre l'Università che avrebbe legato tale programmazione alle proprie esigenze e non a quelle della sanità italiana. Se questo è vero, e in gran parte lo è, è altrettanto vero che si sono sempre lesinati fondi all'Università per nuove strutture, implementare gli organici, investire in tecnologie: presupposti essenziali per poter formare più laureati, i quali "nun so fiaschi che s'abbottano”, si direbbe con ironia Roma. Un quadro con annosi problemi che la mancanza di una strategia complessiva e di largo respiro non ha mai affrontato e tantomeno risolto. Ma non spegniamo del tutto la flebile fiammella della speranza; qualche passo in avanti alla fine riusciremo a farlo. Del resto se siamo il Paese che ha affrontato, e sta affrontando, meglio di tutti la pandemia del Covid; se siamo il Paese in cui l'economia cresce del 6,3% nel 2021, attestato OCSE, ovvero terzi nel mondo dopo Cina e India, qualcosa vorrà pur dire.

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del Dott. Alberto Volponi


“Libertà va cercando ch’è si’ cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Siamo al primo canto del Purgatorio e Virgilio così presenta Dante, cercatore di libertà, a Catone l'Uticense che arrivò al suicidio per non affrontare l'onta di perdere la libertà. Il suicidio, condannato da Dante nell'Inferno con l'episodio di Pier delle Vigne, e da cattolico non poteva essere altrimenti, diventa, nel caso di Catone, un atto supremo di affermazione della libertà contro il pericolo di abolizione delle libere istituzioni minacciate da Giulio Cesare. Nella storia anche contemporanea gli esempi di estremo sacrificio per l'affermazione della libertà sono numerosi: dai monaci buddisti negli anni ‘60 contro il regime vietnamita che, cosparsi di benzina si lasciavano bruciare vivi, a Jan Palach nella Praga del ‘68 invasa dai carri armati sovietici. Non sempre, tuttavia, si è fatto buon uso della libertà. Durante la rivoluzione francese Madame Roland, viscontessa, già musa dei Girondini, mentre si avviava verso la ghigliottina perché erano arrivati al potere i Giacobini, nel passare sotto la statua della Libertà in place de La Revolution, oggi de La Concorde, ebbe ad esclamare: “Oh liberté, quel de crimes on commet en tou nome”; quanti delitti si compiono in nome della libertà! Con queste premesse ci appare eccessivo, quasi irridente, innalzare il vessillo della libertà e autoproclamarsi come ultimi difensori contro la dittatura sanitaria, in un crescendo di rifiuti; prima no alle mascherine, poi alla rilevazione della temperatura corporea, agli screening sierologici e molecolari, no alla vaccinazione e infine al green-pass! è evidente che certi livelli di contestazione con rumorose manifestazioni organizzate, in alcuni casi anche violente, si raggiungono grazie a strumentalizzazioni ideologiche e populistiche di ataviche paure e diffuse ignoranze che vanno certamente capite e ascoltate, facendo ogni sforzo perché siano razionalmente superate. In un recente articolo il filosofo francese Luc Ferry affronta il tema del rifiuto, inspiegabilmente così determinato, dei contestatori non solo della vaccinazione ma di ogni forma di prevenzione. “Sono numerose le persone - egli scrive - fortemente convinte che ci stiano mentendo”, che i morti per Covid sono molto meno di quanto si dica o che, addirittura, il virus non sia altro che un'invenzione di chi è al potere e vuole imporre delle misure liberticide, come ha affermato il filosofo Giorgio Agamben. Ed ancora: “Nel fronteggiare il complottismo che aleggia sulla pandemia, quanto più si tenta di argomentare, di esporre fatti, tanto più si viene scambiati per agenti segreti del complotto, stesso”. Se da una parte è necessario un radicale ripensamento della strategia della comunicazione, de-istituzionalizzandola e affidandola a soggetti-simbolo che riscuotono consenso e fiducia, è a altrettanto vero che va stigmatizzata e contrastata l'azione di movimenti e partiti politici che, contraddittoriamente, nell'evocare ideologie in cui le libertà personali sono sacrificate di fronte alla necessità di costruire uno stato totalizzante, che “forgia” i suoi cittadini per il primato della “razza”, oggi sono i più accesi sostenitori del libero arbitrio in tema di vaccinazione. La storia non va letta scegliendo i capitoli che più ci fanno comodo! La vaccinazione antidifterica, che uccideva una persona su dieci infettate, fu, giustamente, resa obbligatoria in Italia nel ‘39 e sappiamo tutti chi sedeva a Piazza Venezia. Di fronte a epidemie o addirittura a eventi pandemici ogni governo, ogni parlamento, di ogni epoca, al di là della propria connotazione politica e ideologica, ha sempre inteso privilegiare la salute dei cittadini ricorrendo a misure anche draconiane, con l'isolamento forzato di intere comunità, e di città che sbarravano le loro porte di ingresso. Nella nostra Italia liberale la prima vaccinazione a essere decretata obbligatoria fu quella antivaiolosa con la legge Crispi del 1888. Oggi sono ben undici le vaccinazioni obbligatorie per legge che vengono somministrate ai nostri bambini fin dal terzo mese - dicasi mese - di vita. Si invoca per gli adulti l'articolo 32 della Costituzione, con una lettura parziale e un'interpretazione arbitraria, in materia di libertà di cura mentre non si comprende perché tale interpretazione non venga estesa nel caso dei nostri bambini, anch'essi cittadini italiani e parimenti tutelati nei loro diritti dalla Costituzione. Anche tutta la legislazione sul divieto del fumo nasce dall'esigenza di tutelare la salute del cittadino non fumatore che subisce passivamente gli effetti nocivi del fumo. Sappiamo bene i danni provocati dal fumo a livello polmonare e sull'apparato cardio-vascolare, danni che, tuttavia, nel caso di fumo passivo sono limitati e determinati da particolari condizioni ambientali e di durata all'esposizione. Eppure il principio della tutela della salute del vicino occasionale al ristorante o al cinema, per un possibile, quasi ipotetico, danno da inalazione passiva del fumo, ha infine portato il legislatore al suo divieto assoluto. Nessuno, a nostra memoria, ha mai accusato il Parlamento, né il Governo dell'epoca, di dittatura sanitaria, insultato ministri e scienziati! Da parte di tutti, sarebbe necessaria una maggiore consapevolezza del difficile momento che viviamo, e di un maggior senso di unità e di solidarietà. Al contrario ci si divide, anche pretestuosamente, su tutto. Si invoca il rispetto dalla privacy per rifiutare il green-pass, diritto che abbiamo perduto da tempo visto che, grazie all'uso dei cellulari e alla montagna di informazioni che contengono, tutti sanno di tutto, mentre sono anni che ci chiedono, a ogni pie’ sospinto di mostrare i documenti di identità, a cominciare dall'ingresso alla stadio, mentre migliaia di telecamere, pubbliche e private, riprendono tutti i nostri spostamenti. In nome di questo ormai obsoleto diritto si chiede di sostituire il green-pass con l'autocertificazione! Ma se siamo stati capaci di stampare e vendere via internet a 100/200 € green-pass falsi al grido: “o’ grenn-pass, accattateve o green-pass!”. Se è tutto un fiorire sui social di battute per cui viene scomodato anche Draghi, in versione dandy, che imita George Cloney nello spot per Martini, con un “No green-pass no party”, pensiamo di dare un valore probante all'autocertificazione? Vista così potremmo concludere con l'ironia di Flaiano: “La situazione è grave ma non seria”. Purtroppo il Covid è una cosa seria con i suoi quasi cinque milioni di morti nel mondo e i nostri, in Italia, cinquanta al giorno!! Cosi come preoccupanti sono le contestazione dei no-vax nel mondo occidentale, lì dove, grazie al cielo, c'è la possibilita di esprimersi e di manifestare liberamente. Non vi è alcuna dittatura sanitaria in atto ma appare minacciosa, all'orizzonte, quella che potremmo definire una dittatura delle minoranze che finirà per minare i sistemi democratici.

 

 

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di Raffaele Turturro, Commercialista, Roma

La responsabilità civile e i rischi connessi all’esercizio delle attività professionali sono in costante aumento, pertanto, é legittima la preoccupazione di individuare idonei strumenti giuridici di tutela patrimoniale. Se da un lato é giusto assicurare un congruo risarcimento per gli errori commessi nell'esercizio dell'attività professionale occorre tuttavia evitare di compromettere la situazione patrimoniale familiare e preservarla da eventi imprevisti e imprevedibili. Il ristoro dei terzi danneggiati può essere garantito mediante un'apposita polizza assicurativa, tuttavia, anche in tal caso non é possibile escludere l'eventualità che la richiesta di risarcimento non venga integralmente coperta dalla polizza e intacchi anche il patrimonio personale del professionista. Tra i vari strumenti di tutela, l'istituto del Fondo Patrimoniale appare il più idoneo al caso specifico anche in relazione al rapporto costi/benefici. Il fondo patrimoniale è lo strumento previsto dal nostro codice civile per assicurare alla famiglia, fondata sul matrimonio, la salvaguardia dei beni destinati a soddisfarne i bisogni da possibili azioni esecutive da parte di terzi. Questa tutela può essere utilizzata solo dalle coppie sposate (siano esse in regime di comunione o separazione dei beni); non se ne possono avvalere quindi i "single" o le unioni non regolarizzate. Possono essere compresi nel fondo beni immobili, beni mobili registrati e titoli di credito. Conferire beni in un fondo patrimoniale significa apporre sui beni stessi un vincolo di destinazione ai bisogni della famiglia, senza che questo comporti la perdita della proprietà del bene. Il vincolo riguarda l’uso che si può fare del bene inserito nel fondo patrimoniale che deve essere rivolto a soddisfare i bisogni della famiglia. La vendita dei beni inseriti nel fondo patrimoniale, pertanto, può avvenire solo se c’è il consenso di entrambi i coniugi. Il fondo patrimoniale si costituisce con atto notarile, il costo non é eccessivo, può andare indicativamente dai 1.500 ai 2.000 euro e non varia significativamente in ragione dei beni in esso conferiti. Queste brevi considerazioni sembrerebbero stridere con lo scarso ricorso dei professionisti a questo strumento di tutela. Il fondo patrimoniale, infatti, sconta una cattiva reputazione creatasi nel corso degli anni. Proviamo a vedere se questo giudizio negativo é meritato o se deriva da una analisi superficiale, anche alla luce delle sentenze al riguardo della Corte di Cassazione. L'art 170 del Codice civile stabilisce che i beni del fondo patrimoniale non sono escutibili per i "debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia". Viceversa, se il professionista ha contratto dei debiti per sostenere le spese familiari, i beni del fondo patrimoniale possono essere aggrediti dai creditori. Il debitore che intenda avvalersi della protezione scaturente dal fondo patrimoniale deve dimostrare la regolare costituzione del fondo, la sua opponibilità al creditore procedente e che il suo debito sia stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Il punto fondamentale, quindi, é individuare quando il debito può essere correlato ai bisogni familiari. Questo aspetto ha condizionato il giudizio negativo sull'istituto: "Come si fa a dimostrare che i debiti non sono stati contratti per esigenze familiari ? La definizione di spese familiari può essere molto ampia." É bene chiarire che il fondo patrimoniale non é una cassaforte che garantisce impunità da ogni genere di obbligazione. Se dopo aver costituito il fondo non si pagano i debiti e le imposte dovute, probabilmente i creditori e anche lo Stato, potranno agevolmente sostenere che questo comportamento ha contribuito a sopperire ai bisogni familiari. La situazione é ancora più censurabile se si costituisce il fondo patrimoniale per sottrarre i beni a debiti già contratti in precedenza. Tuttavia, se il fondo patrimoniale non tutela i beni quando se ne fa un uso distorto, rimane un valido rimedio per realizzare gli scopi consoni alla sua stessa natura: la tutela del patrimonio familiare da obbligazioni non riconducubili alle esigenze domestiche. La Corte di Cassazione, nel corso degli anni ha interpretato estensivamente la definizione di obbligazioni sorte per esigenze familiari (Cassazione 15862/ 2009) individuando un criterio identificativo legato non alla natura dell'obbligazione, ma alla concreta relazione tra il fatto da cui essa deriva e i bisogni familiari, così da potervi ricondurre ogni sorta di credito purché volto al mantenimento e allo sviluppo della famiglia. Queste interpretazioni hanno influenzato negativamente il giudizio sulla validità della tutela offerta dal fondo patrimoniale. Ma così facendo si é proceduto per così dire a " buttare via il bambino con i panni sporchi" . L'orientamento della Suprema Corte, infatti, ha chiarito negli anni i corretti confini dell'istituto fino ad arrivare all'ordinanza 2904 dell'8 febbraio 2021, con la quale esclude una connessione automatica tra i debiti assunti per ragioni professionali o imprenditoriali e la soddisfazione dei bisogni della famiglia del debitore mediante l'assunzione di detti debiti. La Suprema Corte precisa che, se é ben vero che la prova dei presupposti di impignorabilità grava sul debitore, una volta addotta dal debitore l'estraneità dell'obbligazione assunta rispetto alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, spetta al creditore l'onere di provare che, nello specifico caso concreto, il debito é stato contratto per esigenze famililari. (Cassazione, sentenze 12998/2006, 15862/ 2009, 15886/ 2014). Secondo la Cassazione, dunque, non vi é connessione automatica tra obbligazioni assunte per l'attività professionale e bisogni familiari, e "l'atto di assunzione del debito é eccezionalmente volto a, immediatamente e direttamente, soddisfare i bisogni della famiglia". Questa interpretazione ben si inserisce nel nostro sistema normativo. L'art 46 della legge fallimentare, infatti, esclude dal compendio dei beni del fallito quelli costituiti in fondo patrimoniale. Ma se questo criterio stabilito dalla Corte di Cassazione é valido per la generalità dei debiti di impresa o professionali, a maggior ragione si deve applicare ai debiti che sono estranei alla ordinaria attività professionale e scaturiscono da una richiesta di risarcimento danni per responsabilità civile. La responsabilità civile si divide in responsabilità extracontrattuale (Art.2043 C.C) che prevede l'applicazione del principio di “ non nuocere” e che obbliga chi ha provocato un danno ingiusto verso qualcuno a risarcirlo e responsabilità contrattuale che deriva dalla violazione di uno specifico rapporto, contratto. In entrambi i casi il debito scaturisce da un obbligo di risarcimento e non ha alcuna correlazione con le esigenze familiari. Quindi una volta addotta dal debitore l'estraneità dell'obbligazione assunta rispetto alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, sarà impossibile per il creditore dimostrare che il debito scaturente da una responsabilita professionale é stato contratto per esigenze famililari. La cattiva reputazione del fondo patrimoniale, quindi, si riferisce ai casi di un uso distorto dello stesso. Viceversa, quando si vuole mettere al sicuro il patrimonio familiare da eventi pregiudizievoli imprevedibili é opportuno ricorrere a questa tutela. Il fondo patrimoniale non é l'unico strumento di salvaguardia messo a disposizione dal nostro ordinamento e il professionista potrà valutare altre opzioni in ragione alle proprie specifiche necessità anche nel'ottica di pianificazione del passaggio generazionale dei beni. Tuttavia tale istituto non pregiudica l'utilizzo congiunto di altre forme di garanzia e, considerando il costo non eccessivo e la natura poco invasiva in relazione alla autonomia patrimoniale individuale, dovrebbere costituire il "minimo sindacale" in fatto di protezione del patrimonio del professionista. (Fonte: La Pelle, Luglio-Agosto, 2021)

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del dott. Alberto Volponi

Anni fa un improvviso blackout costrinse al buio, per una notte intera, tutta New York. Nove mesi dopo ci fu una impennata delle nascite, un vero baby-boom! I newiorchesi avevano riscoperto, in massa, il talamo, almeno per una notte. Questo precedente faceva ben sperare su una inversione di tendenza dei dati sulla natalità nel nostro Paese, da tempo in continua e allarmante flessione, come un possibile effetto del lungo lockdown cui siamo stati costretti per arginare la diffusione del virus. Niente da fare. Le nascite nel 2020, secondo l'Istat, non hanno superato le 400mila unità (nel 2008 erano 576.659) e i primi dati del 2021 sembrano addirittura accentuare questa tendenza. Insomma lo stare chiusi in casa, con tanto tempo a disposizione, non ha aiutato la nostra demografia: tutt'altro. Del resto i pensieri, come ricorda un colorito aforisma napoletano, non ripetibile in questa sede, non aiutano. Abbiamo convissuto con preoccupazioni di ogni sorta, ansie fino a veri stati depressivi da cui si fa fatica a uscire. Il Covid ha, inoltre, aumentato il numero dei decessi; così in Italia l'anno scorso sono morte complessivamente 746.146 persone, 100.526 in più rispetto alla media degli ultimi cinque anni. Il dato più elevato, in assoluto, dal dopoguerra a oggi. Il 10,2% dei decessi è legato alla pandemia. Una elementare operazione aritmetica ci fa scoprire che la differenza fra i nati e i deceduti è stata, nel 2019, negativa per 214mila unità, di ben 342 mila nel 2020 e ci consegna una forte recessione demografica. La tendenza a una riduzione della natalità si evidenzia, da tempo, nei paesi occidentali, in particolare in Europa. Nel vecchio continente  a guidare la classifica per tasso di natalità, ovvero i nati ogni 1000 abitanti, sono i paesi scandinavi con 11,7 della Svezia e 11,2 della Norvegia. L'Italia è pressoché in coda con il 7,0, ultima la Grecia con 6,9. Su scala mondiale siamo al centoquarantesimo posto, classifica guidata dai paesi africani con la Nigeria leader a 44,2, seguita dalla Somalia con 40,9. Nel contempo, per tornare alla nostra Italia, l'attesa di vita è giunta a quota 83,6 anni, il secondo dato nel mondo, nel 2019, e ancorché ridiscesa a 82 l'anno passato a causa del Covid, garantisce un infoltimento della popolazione anziana. La nostra piramide sociale appare così rovesciata: la base formata dalle giovani generazioni, sempre più stretta rispetto all’apice che si dilata per l'aumento degli over 65. Gli effetti sul nostro welfare e, più in generale, sulla nostra economia, rischiano di essere devastanti. L'aumento della popolazione anziana vuol dire maggiori costi in sanità, dove, già oggi, l'80% della spesa è assorbita da tale fascia, nonché un logico aumento della spesa previdenziale mentre si assottigliano le fila dei soggetti attivi, produttori di reddito, con la conseguenza inevitabile di rendere insostenibile un dignitoso sistema pensionistico. Le continue grida di allarme, sempre più manzoniane, continuano a produrre progetti di sostegno alle famiglie, con incentivi economici e di investimenti nei servizi sociali, asilo nido, scuole per l'infanzia, trasporti, progetti e promesse che in molte realtà rimangono tali! Tutto ciò è sicuramente necessario per migliorare la qualità della vita delle giovani coppie ma non sufficiente per un netto impulso a favorire nuove nascite. C’è un dato che deve farci riflettere: la netta diminuzione del tasso di natalità nelle Regioni dove il livello di diffusione di servizi e di interventi a sostegno delle famiglie hanno raggiunto un buon livello. Parliamo, ad esempio, dell'Emilia Romagna, da sempre Regione guida nell'adozione di una funzionante rete di servizi sociali, che ha un tasso di natalità del 6,9 per mille, leggermente inferiore a quello medio italiano, mentre solo nel 2009 quel tasso era del 9,8 per mille! Situazioni analoghe le riscontriamo nel Veneto, in Lombardia, ovvero in regioni dove, fra l'altro, il Pil supera molte aree anche del nord Europa. Il problema è più complesso, più profondo e interroga tutta la nostra società sull'idea di accoglienza, sulla disponibilità e generosità verso l'altro, sia esso ancora non nato, sia verso ogni altro essere di qualunque età, sesso, colore della pelle. Questa nostra società, sempre più permeata dall’esaltazione dell’”Io” e dove il “noi” è sempre più residuale da rendere labile il senso di comunità e di appartenenza, è avviata a un rapido declino o quantomeno a una involuzione non facilmente delineabile nei suoi nuovi tratti distintivi. Se non superiamo i nostri egoismi per cui i figli rischiano di essere un intralcio alle nostre ambizioni personali, se non torniamo a riflettere sul ruolo naturale dei genitori e sul valore assoluto, prorompente della maternità - così come ce la descriveva Eduardo De Filippo nella sua Filumena Marturano - non ci saranno interventi economici e sociali tali da invertire la tendenza alla denatalità. Questa labile propensione alla genitorialità si evidenzia anche nelle adozioni internazionali: nel 2001 furono 4000, ora siamo a 1500. Per fare notizia di nuova adozione, necessita una giovane coppia che va in India, in preda al flagello della pandemia, a prendere il proprio bambino! In compenso crescono a dismisura le adozioni di cani, molto utili, in tempo di lockdown, come lasciapassare per uscire di casa. Ne vediamo in giro di tutte le razze; sempre più rari, per fortuna, i minacciosi rottweiler, gli eleganti levrieri, i più familiari cani-lupo, mentre spopolano cani di piccola taglia. Si rivedono così i chihuahua che, ricordiamo, nei sabato sera televisivi, entrare in scena in braccio alla sinuosa Abbe Lane, cantante arrivata in Italia negli anni ‘60 con l'orchestra del suo gelosissimo marito Xavier Cugat; e abbiamo imparato a conoscere l’American Bully, un incrocio di bulldog inglese, francese, americano, “chiatto” e pacioso, dalla mascella larga con i canini che spuntano dalla bocca anche quando è chiusa, che merita la palma del prototipo del cane Covid per il suo continuo, affannoso, ansimare! Il problema è, allora, dentro di noi! In our mind! Negli anni ottanta canticchiavamo un'allegra canzonetta di Modugno, che agitava, tuttavia, un serio problema sociale: “Il vecchietto dove lo metto”! In particolare in estate, dovendo andare in vacanza, diventava impellente trovare una soluzione e come parcheggio l'ospedale poteva andare bene! Il problema degli anziani l'abbiamo, in qualche modo, risolto con le RSA, luoghi non sempre dignitosi, qualche volta autentici lager e non all'altezza dal pomposo nome: residenze assistenziali! Per i bambini il problema lo stiamo risolvendo alla radice: non scriviamo più alla cicogna e magari qualche volta le spariamo mentre sono in volo.

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del dott. Alberto Volponi

La battaglia contro il vaiolo, malattia altamente infettiva e letale causata dal virus variola, nelle due varianti maior e minor, è ufficialmente finita nel 1979 quando l'OMS ha dichiarato la malattia eradicata. Per secoli il vaiolo ha accompagnato la storia dell'uomo e mietuto milioni di vittime. Sue notizie si hanno a partire dal 3000 a.c. e tracce di una possibile infezione da vaiolo sono state rinvenute nella mummia del faraone Ramses V. L'Europa fu interessata dalla malattia solo nel medioevo con episodiche epidemie che, a partire dal 1500, assunsero forme endemiche propagandosi in tutto il mondo. L'arma per sconfiggere definitivamente questo flagello è stato il vaccino. La storia del vaccino contro il vaiolo è ben nota. Si deve all'intuizione di Jenner, medico inglese, che osservò come i contadini che avevano contratto il vaiolo vaccino, trasmesso loro dalle pustole delle mucche per via della mungitura, non contraevano il ben più grave vaiolo umano. Scelse come cavia il figlio del suo giardiniere, un bambino di otto anni, e, attraverso dei graffi provocati sul braccio, inoculò del liquido prelevato dalle pustole vaiolose delle mammelle di una vacca (da qui il nome vaccino). Il piccolo ancorché esposto a casi di vaiolo umano non si ammalò. Un esperimento certo rischioso, oggi giustamente improponibile e inaccettabile, ma che ebbe lo straordinario merito di aprire la strada ai vaccini, una categoria di indispensabili presidi contro le malattie infettive, così chiamati da Pasteur, in omaggio proprio allo Jenner, quando nel 1885 creò quello contro la rabbia. L'idea che piccole dosi di sostanze liquidi o frammenti essiccati di croste di vescicole vaiolose, magari soffiate nel naso, creassero una qualche difesa contro la malattia era diffusa già da secoli sia in Cina che in India. Era la cosiddetta variolizzazione, sconosciuta in occidente. Solo all'inizio del 1700 grazie a Lady Worthey Montagu, moglie dell'ambasciatore inglese in Turchia, e al suo impegno nel convincere in primis l'aristocrazia inglese a mettere in atto questo pratica conosciuta nel suo soggiorno turco, si diffuse in tutta Europa. Certamente non così efficace come il vaccino di Jenner ma il principio terapeutico era lo stesso. Un recente libro di Maria Teresa Giaveri, "Lady Montagu e il dragomanno" ci fa rivivere l'appassionata e avventurosa storia di questa intraprendente e risoluta Lady inglese ai tempi di re Giorgio I. Il vaiolo, come tutte le malattie infettive, è stata una malattia "democratica". Ha colpito, anche se senza gravi conseguenze, illustri personaggi da Mozart a Beethoven, Washington e Lincoln; colpì Stalin a cui lasciò sul volto, butterato, tracce evidenti che solo l'uso di abbondanti fondotinta, e ritocchi fotografici, resero meno repellente. A partire dal 1958 si intraprese, su forte sollecitazione dell'OMS, una intensa campagna di vaccinazione su scala mondiale che si concluse nei due decenni successivi. La nostra generazione, quella immediatamente post-bellica, fu investita in pieno dal programma vaccinale che avveniva con il metodo della scarificazione: una serie di rapide punture in un'area molto circoscritta sulla faccia laterale del braccio sinistro, con un ago immerso precedentemente in una soluzione vaccina. Si formava, a distanza di una settimana, una piccola vescicola con pus e quando si cominciava a essiccare lasciava il posto a una crosta che, alla fine della terza settimana, cadeva. Rimaneva una indelebile cicatrice, a mò di bottone, che ancora orna il nostro braccio. L'operazione avveniva nell'ambulatorio comunale con il medico di famiglia nella sua veste di Ufficiale sanitario. Aspettavamo trepidanti il nostro turno lungo un corridoio. La stanza del medico, dalle pareti piastrellate di bianco, le sedie, gli sgabelli, il lettino, tutti smaltati di un bianco avorio. Nessun bambino, ancorché intimorito per l'ambiente e forse anche un po' storditi dal forte odore di acido fenico usato, a dosi massicce, come disinfettante, piangeva. In fondo non era dolorosa e poi, visto con quanto orgoglio i compagni che l'avevano già fatta mostravano i segni sul braccio, quasi medaglie al valore, non si poteva non essere coraggiosi. Ben diversa la vaccinazione antidifterica dove, al contrario, i pianti  dei bambini diventavano urla e strepiti, che nessuna promessa di giocattoli, caramelle, gelati riusciva a frenare. Il terrore era instillato dallo strumento che doveva affondare nei piccoli glutei: una siringa di vetro presa dal bollitore con un ago che, per grandezza, avrebbe fatto comodo alla materassaia di fronte all'ambulatorio. Alla vaccinazione antivaiolosa e antidifterica si aggiunse presto quella contro la poliomielite, il cui primo vaccino fu sviluppato da Salk nel 1955 e perfezionato, due anni dopo, da Sabin. Nel 1971, grazie a Hilleman, microbiologo statunitense che non ebbe la notorietà di altri suoi colleghi ma il cui nome è legato a ben quaranta tra vaccini animali e umani, arrivò il vaccino trivalente contro morbillo - parotite - rosolia. Dieci anni dopo sempre Hilleman ci regalò il vaccino contro l'epatite B. Vaccinazioni a gogò che si dovevano fare e si facevano, senza discussione alcuna. Mai sentito che qualcuno in casa,a tavola, avanzasse riserve di alcun tipo, né c’erano dibattiti in merito alla radio (la televisione era nata da poco e non era ancora il "nuovo focolare" cantato da Arbore in "La vita è tutta un quiz"). Per questo non sappiamo immaginare come i bambini di oggi, costretti a ben 10 vaccinazioni obbligatorie (legge 119/2017), e quattro vivamente consigliate, fra cui due per i diversi ceppi di meningococco, riescano a capire qualcosa di un dibattito sulla vaccinazione anti Covid che molti mettono in discussione. Un dibattito probabilmente surreale per loro che sono obbligati a plurivaccinarsi mentre gli adulti "opinano" appellandosi addirittura all'art. 32 della Costituzione. Come spesso accade le norme, anche le più chiare - e quelle scritte nella Costituzione lo sono come non mai - vengono tirate a proprio piacimento e convenienza. Esiste, certo, il diritto costituzionale alla libertà di cura ma è solo il secondo comma del citato articolo 32. Il primo comma sancisce per tutti i cittadini il diritto alla salute che, ovviamente, è premiante rispetto alla libertà di cura, libertà che deve essere regolamentata in senso restrittivo quando si rischia di mettere in discussione l'altro diritto, alla salute, da cui esso discende. Rimane difficile comprendere perché per i cittadini Italiani da 0 a16 anni non valga il diritto costituzionale reclamato dai no-vax e dai ni-vax. Ai bambini non stiamo offrendo un grande spettacolo e, stranulati, ci guardano. Ci potrebbe aiutare a capire meglio il delicato rapporto fra grandi e bambini  rivedere il film di De Sica del 1943,proprio dal titolo: "I bambini ci guardano", un film che aprì le porte alla grande stagione del neorealismo italiano. I bambini, come nel film, ci guardano, ci osservano, ci giudicano e speriamo che non sempre ci imitino. Il rifiuto al vaccino anti Covid non è un grande esempio di solidarietà: non bisogna dimenticare che la libertà individuale è tale quando è espressa nell'ambito della comunità, un legame che oggi, come non mai, deve prevalere. (Articolo pubblicato sul numero di Gennaio/Febbraio 2021 della rivista "La Pelle")

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di Alberto Volponi

Nell'ampia galleria dei Santi, uomini e donne che nella loro esistenza terrena hanno dimostrato di essere integerrimi testimoni delle virtù cristiane e della Fede fino, nel caso dei martiri, a prezzo della propria vita e come tali glorificati dalla Chiesa, un lungo tratto è occupato dai Santi taumaturgi. Sono Santi  a cui il popolo riconosce direttamente, senza l'intermediazione fra il fedele orante e Dio, come vorrebbe l'insegnamento teologico della Chiesa, il potere di risolvere problemi personali, per di più di salute. In relazione alla loro storia, alle vicende vissute, ai poteri loro attribuiti, i Santi si "specializzano." La salute della nostra gola è affidata a San Biagio per aver salvato un ragazzo che stava soffocando per una lisca di pesce inghiottita. San Biagio, vescovo armeno di Sebaste, Turchia, si festeggia il due febbraio, il giorno della Candelora, che secondo la tradizione popolare rappresenta la possibile fine dell'inverno. Ai fedeli in chiesa,o gnuno con una candela accesa,  quel giorno viene unta la gola con un batuffolo di ovatta imbevuto di olio benedetto. Contro le ustioni ci protegge San Lorenzo, martire nel 261, sotto l'imperatore Valeriano, arrostito su una graticola conservata e visibile presso la chiesa di San Lorenzo in Lucina, a Roma, a due passi da Montecitorio. Santa Lucia di Siracusa è la santa protettrice dalle malattie oculari e viene raffigurata con un piattino in mano con due occhi poggiati sopra a ricordo del suo martirio sotto Diocleziano. In verità ,secondo lo storico della medicina, Pazzini, non vi fu enucleazione dei bulbi oculari ma l'immagine, che procura una certa sensazione, ormai è quella. Il 13 dicembre, giorno del suo martirio, ritenuto, erroneamente, dalla credenza popolare il giorno più corto dell'anno, è festeggiato, fra l'altro, in tutti i reparti di oculistica, non si sa se con più fervore dai medici che si affidano alla Santa per evitare errori o dai pazienti che hanno sì fiducia nei medici ma... Prima della moderna chirurgia una patologia con gravi complicanze a esito fatale era rappresentata dall'ernia inguinale. Lo strozzamento dell'ernia  con necrosi dell'ansa intestinale erniata, occlusione, infezione peritoneale voleva dire morire con grandi sofferenze. Dai portatori di ernia, come Santo protettore, fu scelto San Cataldo, monaco di origine irlandese del VII secolo, vescovo di Taranto. Molto diffuso il suo culto nell'Italia centro-meridionale, in Sicilia una cittadina in provincia di Caltanissetta porta il suo nome. Anche un Dottore della Chiesa, Santo Alberto Magno, di origine tedesca, siamo all'inizio del 1200, Patrono degli Scienziati, filosofo, teologo, maestro di San Tommaso dei conti d'Aquino, definito, quest'ultimo, dai suoi contemporanei Doctor Angelicus, è annoverato fra i Santi taumaturgi, ovvero delle puerpere avendo eseguito i primi studi, ancorché monaco, di ostetricia e ginecologia. Era un tempo in cui si prestava molta attenzione e rispetto alle puerpere; in alcuni antichi statuti comunali di epoca medievale, periodo aureo  delle nostre città, è ordinato: "Parimenti stabiliamo che nessun fabbro o calderaio possa lavorare nella sua fucina per dieci giorni quando una donna a loro vicina avrà partorito..." Questo per evitare che i loro martellanti e rumorosi lavori disturbassero la quiete delle neo-mamme con quali danni economici si può immaginare, senza cassa integrazione né la possibilità di attivare lo smart working. Fra i Santi taumaturgi un posto in prima fila spetta di sicuro a San Rocco, la cui fama di Santo protettore e guaritore è legata alla peste e per questo venerato in tutta l'Europa, ciclicamente, nei secoli, devastata dalla diffusione dell'epidemia. San Rocco incontra per la prima volta la peste durante il suo pellegrinaggio dalla natia Montepellier a Roma, ad Acquapendente, nel viterbese, dove si ferma ad assistere gli appestati. Successivamente accorre a Piacenza, dove anche qui  era scoppiata la peste, ma  questa volta ne rimane contagiato. Si ritira in isolamento, ora si chiama lockdown, in una capanna della campagna piacentina e, secondo la tradizione, un cane provvede a portargli del cibo. Per questo il Santo è raffigurato, avvolto in un cencioso mantello, pieno di piaghe, con un cane che lo guarda con una ciambella in bocca. Della grande fede per il Santo ne è testimonianza una suggestiva rappresentazione pittorica del Tintoretto che si può ammirare nella Scuola Grande di San Rocco a Venezia. A tenere viva la memoria del Santo sono le numerose chiese e chiesette, costruite quasi sempre all'ingresso dei Paesi, proprio a significare per gli abitanti il ruolo protettivo e quindi salvifico di San Rocco nei confronti della peste, nonché le tradizionali feste del 16 agosto. Intorno alla statua del Santo portata in processione i fedeli depongono le famose ciambelle, un omaggio anche al fedele cane che lo salvò dalla fame. Una tradizione simile è rispettata, in particolar modo in Sicilia, per San Calogero. Un monaco che durante un'epidemia di peste passava per il paese a chiedere cibo per gli appestati allontanati fuori le mura della città. Per il timore di contagio nessuno gli si avvicinava ma dalle finestre venivano lanciati dei pani che il Monaco raccoglieva. è Camilleri, nel suo racconto: "Le scarpe nuove" a ricordarci l'evento che si ripete ogni anno alla processione di San Calò nella sua immaginaria Vigata: "Quanno passava strate strate la statua del santo, la genti dai balconi gli ghittasse pagnotte di pani particolari fatto fari apposta". I Santi taumaturgi sono stati sempre dai fedeli, dal popolo, trattati con una certa confidenza, in collegamento diretto, con una libertà qualche volta eccessiva. Illuminante, in questo senso, l'esilarante sketch del trio napoletano La Smorfia, con Troisi e Lello Arena che pregano con petulante insistenza San Gennaro cercando di convincerlo a intercedere per una vincita a lotto: un ambo sulla ruota di Napoli con Troisi che insiste per il 5-25 e Arena, che cerca di accattivarsi le simpatie del Santo assicurando quattro candele nuove ogni lunedì, con il 15-58. Il loro vociare fa accorrere il sacerdote, Enzo De Caro, che caccia i due questuanti. Rimasto solo volge gli occhi a San Gennaro: "Mi raccomando, San Genna', 6 e 21!" Ma al di là della narrazione di queste forme a volte semplici, talora folcloristiche di ricerca di un aiuto soprannaturale non possiamo eludere il fenomeno di improvvise guarigione da gravi patologie che non trovano una spiegazione razionale, scientifica e per questo continuiamo a chiamarle miracoli. La chiave interpretativa va cercata nella nostra mente, nella capacità di attivare meccanismi bio-chimici e ormonali, arrivando a modificare e annullare lo stato morboso, dalla forza di credere, dal potere della fede "che smuove le montagne"! Chissà quale aiuto ci potrebbe dare un qualche Santo al tempo del Covid. In verità non abbiamo alcun Santo a cui votarci complici anche le chiese chiuse, chiusa anche Lourdes, niente processioni. Abbiamo, ormai da tempo, imparato la lezione manzoniana che descrive gli incontrollabili effetti moltiplicatori del contagio della peste imputabile alla processione della reliquia di San Carlo Borromeo dell'11 giugno 1630 a Milano a cui parteciparono migliaia di persone. Rimane la speranza, che è pur sempre una virtù teologale, nel vaccino, che tutti invochiamo, quasi un santo vaccino! Anche in questo caso avremo molti che non ci crederanno, che avranno timore di complicanze  e di effetti collaterali, che sospetteranno l'interesse inconfessabile dei soliti Soros e delle multinazionali del farmaco. Ci vorrebbe, allora, un altro vaccino: contro la cretineria umana per eliminare tutti i cretini. "Programma troppo ambizioso" avrebbe ammesso De Gaulle.

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del dott. Alberto Volponi

Lombardia e Veneto, due regioni contigue ma così diversamente colpite dal Covid. Divise per molti chilometri solo da un corso dì’acqua. Di là del fiume... e tra gli alberi, aggiungerebbe subito l'appassionato lettore di Hemingway; un romanzo ambientato dallo  scrittore americano nel Veneto del '46. Il cinefilo ricorderà il protagonista, un colonnello, Richard Cantwell, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale e ora tornava a rivedere, carico di ricordi, quei luoghi di aspri combattimenti e di morte. In verità il nostro riferimento a Hemingway è solo un richiamo letterario: il fiume di cui vogliamo parlare è il Mincio, l'ultimo affluente di sinistra del Po che nascendo dal Garda segna, per ampi tratti, il confine fra la Lombardia e il Veneto. Un fiume di appena 75 km ma spesso entrato nella storia. Virgilio, l'Omero dell'antica Roma, nato ad Andes, vicino Mantova - anche se sull'epigrafe mortuaria rivendicò natali mantovani: "Mantua me genuit." - amava il suo fiume, il suo placido scorrere, senza argini, citandolo in tutte le sue opere più famose e, nelle Georgiche lo definisce "ingens", immenso. Giuseppe Verdi, con Garibaldi, il personaggio più popolare e unificante dell'Italia risorgimentale, ambienta a Mantova il suo Rigoletto e tutto il terzo atto si svolge in una locanda sulle rive del Mincio. Per la sua posizione geografica, lungo le sue sponde, si sono combattute frequenti battaglie. Nel 1814 fra i franco-piemontesi e gli austriaci, quando ancora il "sole di Austerliz" splendeva alto prima di tramontare definitivamente, l'anno dopo, a Waterloo. Durante il Risorgimento storiche le battaglie di Custoza nel '48, sul ponte di Goito, dove si verificò il primo scontro della prima guerra di indipendenza fra piemontesi e austriaci e vide il battesimo di fuoco del corpo dei bersaglieri che, di corsa, ci accompagnerà per tutto il Risorgimento fino a Porta Pia e oltre. Nel '66 ancora Custoza ma, come nel '48 l'esercito piemontese fu sconfitto da quello austriaco. Grazie all'intesa con la Prussia, anch'essa in guerra con l'Austria, ma vincitrice, il regno sabaudo incassò il Veneto e parte del Friuli, subendo l'umiliazione di annettere i nuovi territori via Francia. Ma torniamo a noi. Da sempre il Mincio traccia, geograficamente e amministrativamente, il confine fra queste due regioni pressoché identiche dal punto di vista orografico, ambientale, socio-economico. Sono le regioni più ricche d'Italia; il loro Pil, sommato a quello dell'Emilia-Romagna, rappresenta il 50% di quello italiano. In Lombardia il reddito pro-capite è di 37.258€, superiore alla media europea, in Veneto 33.500. Anche la struttura demografica della popolazione è molto simile: l'età media in Veneto è di 45,1 anni, in Lombardia 44,7; l'indice di vecchiaia, ovvero il rapporto fra gli ultra sessantacinquenni  e i giovani fino ai quattordici anni è favorevole alla Lombardia,165,5 vs 172,1 del Veneto. Due Regioni, quindi, diverse tra di loro per storia, tradizioni, costumi, dialetti ma due Regioni che giustamente continuiamo ad assimilare nella definizione lombardo-veneto come un unicum. Tuttavia gli effetti devastanti della pandemia sono stati drammaticamente differenti. Il primo luglio si contano in Veneto 2.022 morti per Covid, in Lombardia 16.650. è vero che quest'ultima ha una popolazione, dieci milioni di abitanti, esattamente doppia rispetto al Veneto, ma il divario rimane ed è forte e non può non interrogarci. Abitare di là del nostro fiume ha rappresentato, per i cittadini delle due Regioni, una più elevata, e di molto, o più bassa, probabilità di ammalarsi e di morire! 75 metri, tale la larghezza media del Mincio, per una chance in più o in meno di vivere. Fra i fattori favorenti la diffusione del virus è stato individuato quello ambientale; ma nel nostro caso non esistono, sotto questo profilo, differenze proprio per le note caratteristiche che accomunano le due Regioni. Il Covid, altra considerazione, colpisce soprattutto gli anziani. Anche in questo caso  la struttura demografica delle due popolazioni sono simili, con indici migliori, se vogliamo, della Lombardia. L'organizzazione sanitaria presenta invece delle diversità. La Lombardia ha puntato molto sugli ospedali di eccellenza, su una parificazione completa pubblico-privato. Un'organizzazione che potrebbe avere, come ha avuto, difficoltà a rimodellarsi rapidamente e rispondere con efficacia difronte a una emergenza come quella vissuta con il Covid. Ma è pur sempre una sanità di qualità. Altrettanto si può definire la sanità del Veneto che ha, tuttavia, sviluppato il proprio sistema sanitario in maniera più equilibrata con una rete territoriale ben strutturata. In verità entrambi i sistemi non erano, né potevano essere pronti a risposte immediate ed efficienti di fronte alla violenza del virus, come non lo è stato nessun sistema sanitario al mondo. La differenza, allora, nel nostro caso l’hanno fatta, come spesso accade, le scelte strategiche dei decisori politici e tecnici. Il Veneto ha trovato nel Prof. Crisanti, microbiologo dell'Università di Padova, nemmeno virologo - figura così di moda oggigiorno - reimportato in Italia dopo una lunga esperienza all'Imperial College di Londra, il vero artefice della lotta al Covid vincendo le iniziali resistenze della dirigenza amministrativa, la famosa burocrazia, e politica della Regione. Ha intuito in tempo, il Prof. Crisanti, l'importanza dell'uso dei tamponi per individuare d isolare soggetti portatori e circoscrivere l'area del contagio, avendo, fra l'altro, avuto l'accortezza, interpretando meglio di altri ciò che stava avvenendo in Cina, di riempire il magazzino del laboratorio di reagenti a costi contenuti e ancora reperibili sul mercato. Per questo è stato formalmente diffidato e minacciato di procedimento per danno erariale dal direttore generale della sanità del Veneto! Affrontare poi, sul campo, l'emergenza è stato compito dei medici e degli infermieri, ma il numero più contenuto dei contagiati, meglio distribuiti, a seconda della gravità, fra assistenza ospedaliera e domiciliare, ha permesso loro di dare risposte più adeguate. Errori e disfunzioni ci sono stati anche in Veneto; basti pensare alla prima dotazione al personale di mascherine che sembravano di carta velina ma la strategia di fondo è risultata vincente. In Lombardia, purtroppo, le scelte sono state altre; alcune non esiteremmo a definire criminose come la gestione dei pazienti ricoverati nelle RSA. La drammatica conseguenza sta in due numeri. A oggi: 72.000 contagiati in Lombardia, 19.327 nel Veneto. I numeri sono questi e hanno una incontrovertibile valenza confermando un aforisma dello scrittore Robert Heinlein, ancorché famoso autore di libri di fantascienza "Se qualcosa non può essere espressa in numeri non è scienza: è un'opinione"

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del Dott. Alberto Volponi

Tutta la storia dell'umanità è costellata da luttuosi, tragici eventi epidemici; grandi storici e scrittori ne hanno permesso la conservazione della memoria con indimenticabili pagine. Tucidite fa una descrizione dettagliata della peste che, proveniente dall'Etiopia, attraverso l'Egitto e la Libia arrivò in Grecia e nel 430 a.C.. La porta d'ingresso fu il Pireo, e la malattia giunta ad Atene fu così violenta da indebolirla a tal punto da segnare l'inizio del suo declino. Sofocle ambienta il suo Edipo Re nella Tebe devastata anch'essa, negli stessi anni, dalla peste. Lucrezio, 400 anni dopo Tucidite, tornò a descrivere la peste di Atene nel “De rerum natura” con una visione meno storiografica e più filosofica, invitando gli uomini a non avere paura dei “naturali sconvolgimenti e cataclismi di qualsiasi specie. Temere è turbarsi e turbamento è fonte di infelicita” ma Lucrezio era un epicureo... Della peste nera del ‘300 che sconvolse l'Europa con 20 milioni di vittime su una popolazione di 60 milioni di abitanti, hanno scritto, come sappiamo, il Boccaccio e lo stesso Petrarca che perse la sua amata Laura colpita dalla malattia. Manzoni dedicò alcuni capitoli del suo capolavoro alla descrizione della peste portata in Italia dai Lanzichenecchi, soldati mercenari scesi in Italia, attraversando la Valtellina nel 1630, per partecipare alla guerra di successione per Mantova e Monferrato fra la Spagna di Filippo IV e la Francia di Luigi XIII e Richelieu. Guy de Maupassant ,siamo alla fine dell'800, nel suo racconto “Il Porto”, ci descrive la tragedia di una immaginaria epidemia di peste che travolge, anche moralmente, la famiglia di un giovane marinaio francese di Marsiglia. Un nuovo successo sta riscuotendo “La peste” di Camus, libro scritto nel 1947 e ambientato a Orano dove la malattia è una metafora, sempre attuale, di un diffuso degrado politico. Anche le molteplici epidemie di colera ci sono state raccontate da grandi scrittori. Un autentico capolavoro è “La morte a Venezia”. Thomas Mann ambienta nella città lagunare, agli inizi del 1900, la storia di uno scrittore tedesco sconvolto dall’amore per il giovanissimo Tadzio: rimane a Venezia, travolto dalla passione, nonostante che la città sia infestata dal colera, e muore. Visconti nel 1971 farà del romanzo un bellissimo film con Dirk Bogarde. Verga ci racconta in “Quelli del colera” l'epidemia di metà ‘800 a Catania che raggiunse anche Palermo; quest'ultima è descritta nel recente libro “I Leoni di Sicilia”, insieme alla storia della famiglia Florio, dalla giovane Stefania Auci. La cronaca degli anni più recenti ci riporta alla memoria la “spagnola”, la prima pandemia   che scoppiò durante la prima guerra mondiale  e fece ben 50 milioni di morti  in tutto il mondo. “L'asiatica” del ‘57 che colpì in Italia metà della popolazione con trentamila morti ma in tutto il mondo si stima che le vittime siano state dai 2 ai 4 milioni. Nel ‘69 ci fu la “spaziale” con un terzo degli italiani a letto e ventimila morti. Ed eccoci ora con il coronarovirus. A un mese dall'inizio nel nostro Paese dell'epidemia, ora pandemia, ma la sostanza per noi non cambia, qualche prima riflessione possiamo cominciare a farla. è una esperienza che viviamo con un sottofondo di inevitabile paura. Paura che abbiamo cercato di esorcizzare, almeno fin’ora, attraverso i più fantasiosi flashmob e goliardici messaggi che intasano i nostri telefonini: la caccia al cinese, lo starnuto del Papa che desertifica in un attimo piazza San Pietro, l'Ultima cena di Leonardo senza più commensali. Abbiamo anche riscoperto un salutare orgoglio nazionale, con tanto di frecce tricolori, nella ferma convinzione che ce la faremo! Importante che la paura si connoti delle caratteristiche di razionalità e ci aiuti, con intelligenza, seguendo le indicazioni degli esperti sulle precauzioni da prendere. Bisogna imparare a governare la paura per evitare conseguenze più disastrose. Roosevelt nel discorso  inaugurale del suo primo mandato da Presidente degli Stati Uniti, afflitti dalla grande depressione del ‘29, ammoniva gli americani: “La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, l'irragionevole, ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in avanzata”. Così come dovremmo, per rimanere nel nostro italico orticello, riflettere sugli errori a catena di una classe politica che ha così pesantemente depauperato il nostro sistema sanitario di risorse umane, tecniche e finanziarie e che si sta reggendo grazie all'abnegazione, la professionalità dei medici, infermieri e di altri operatori, cui solo oggi riconosciamo i dovuti meriti e non esitiamo a definirli eroi dopo averli a lungo insultati, e fino a un mese fa, letteralmente mazziati. Va ripensato il quadro dell'allocazione delle risorse in settori strategici, quale si sta drammaticamente confermando la sanità, evitando colossali mance per captatio benevolentiae di intere categorie e fasce sociali; evitando sprechi come un referendum confermativo, quindi senza quorum elettorale, di una legge votata a stragrande maggioranza dal Parlamento sulla riduzione del numero dei parlamentari, per uno sfizio, che ci costerà 300 milioni, di 71 senatori. Nel contempo vanno ripensate anche le modalità di reperimento delle risorse, ovvero si dovrà mettere mano a quell'insulso sistema fiscale per cui metà degli italiani pagano le tasse anche per quelli che non le pagano o non le pagano nella misura dovuta. Una ingiustizia contributiva, una diseguaglianza, che si traduce in una politica di uguaglianza nell'accesso ai servizi, sempre più scadenti, ovviamente, per carenza di risorse. Altro insegnamento da trarre, il più importante per la tenuta democratica del sistema Italia, il riequilibrio dei poteri. Il federalismo all'amatriciana, di cui si vorrebbe fregiare il nostro Paese, ha mostrato tutta la sua pericolosità nell'affrontare l'emergenza sanitaria: il federalismo del caos! “Governatori” (di che? Ohio? Illinois?) così come sono stati arbitrariamente ribattezzati i Presidenti delle Regioni, hanno dato il meglio di sé sproloquiando, su tutte le reti televisive, con i loro virologi, infettivologi, epidemiologi di fiducia (nuova categoria professionale!). In primis il sempre più emaciato Fontana che si è anche esibito, maldestramente, nell'indossare una inutile mascherina, e il sempre più azzimato Zaia che è riuscito, con tutto il suo aplomb, a far innervosire (eufemismo di maniera) i cinesi con la storia dei topi mangiati crudi, lui che “governa” i vicentini da sempre inseguiti dal titolo di “magna gatti”. Per non parlare del campano De Luca, che è ormai, nelle sue performance televisive, difficile da distinguere dall'imitazione di Crozza. Oltre a loro finanche i sindaci dei più piccoli comuni si sono esibiti con ordinanze a volte grottesche, senza trascurare, nell'alimentare la confusione, il ruolo dei dirigenti scolastici con alcuni divieti incomprensibili. Finalmente il Presidente del Consiglio, una volta in pochette a quattro punte, una volta in maglione, si è ricordato dei doveri che gli impone la Costituzione, art. 117, punto q, e ha preso le redini del comando. Passata la burrasca con pesanti esiti sul piano sanitario, e con effetti più gravi e duraturi nel tempo sul piano economico con inevitabili riflessi sociali, dovremo prendere atto, volenti o nolenti, di non essere gli stessi di prima.  Certamente ci sentiamo, già ora, più fragili perché abbiamo ormai realizzato come la risposta a un evento che minaccia la nostra salute e la nostra stessa esistenza, la nostra economia, i nostri difficili equilibri sociali, non appartiene solamente a noi, e i nostri sforzi, in futuro, saranno destinati all'insuccesso in assenza di una strategia multilaterale. La governance, sia tecnica, probabilmente con un ruolo più incisivo dell'OMS, sia politica, di processi pandemici come l’attuale, non può che essere unica per il semplice motivo che il virus non conosce frontiere e che interventi circoscritti  nei confini tradizionali dei singoli Paesi, sono, alla prova dei fatti, scarsamente efficaci. Altro che sovranismi nazionali e federalismi regionali, autentico ossimoro istituzionale! Certo, per ora importante è uscirne fuori: primum vivere.

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del dott. Alberto Volponi

Nanny State ovvero lo Stato balia che, preoccupato per la salute dei propri cittadini, e soprattutto dei costi sociali ed economici riflessi, interferisce nei loro stili di vita. Lo Stato con una missione pedagogica, al limite dello Stato etico, missione che si sviluppa attraverso una serie di divieti e di proibizioni. Uno Stato di "lotta" al fumo, all'alcool, all'obesità, solo per citare i campi di maggiore impegno. Certamente gli abusi  di certe sostanze hanno rappresentato da sempre una minaccia per la salute dell'individuo ed è giusto limitarne il consumo che, tuttavia, rappresenta anche l'espressione di abitudini secolari difficili da sradicare. Il tabacco arriva in Europa con la scoperta dell'America, dove gli indigeni fumavano foglie essiccate e accartocciate, e comincia ad avere una sua diffusione dopo il 1560 quando l'ambasciatore portoghese in Francia, Nicot, da cui il nome del componente più importante, la nicotina, ne promuove la coltivazione come pianta medicinale. Da lì a poco il tabacco viene consumato sotto forma di sigaro, fumato con la pipa, masticato o  fiutato in particolare dagli strati sociali più elevati e nel mondo ecclesiastico, soprattutto nei conventi. Forse per questo gli autori della serie televisiva "I Borgia" compiono l'errore storico  di far fumare troppo presto un sigaro a Jeremy Irons, peraltro grande attore nell'interpretazione di Rodrigo Borgia, che diventò Papa Adriano VI proprio nel fatidico 1492, mentre si aggira  nelle stanze del Vaticano non ancora affrescate da Raffaello. Ma la vera esplosione nel consumo del tabacco vi sarà con la sigaretta inventata nel 1832 dai soldati ottomani durante l'assedio di San Giovanni d'Acri, in Palestina, e fatta conoscere  ai soldati francesi, inglesi e piemontesi, alleati contro la Russia zarista nella guerra di Crimea. Da allora si è pensato ai Turchi sempre come incalliti fumatori ("fumi come un turco") anche se nella speciale classifica mondiale la Turchia è solo al 29° posto, classifica guidata da Montenegro e Bielorussia, e chiusa  dai paesi del centro Africa, Ruanda e Uganda, dovecertamente  hanno altri problemi che fumare. L'Italia è al 34° posto ma la vera ciminiera è rappresentata dalla Cina dove fumano poco, singolarmente, ma in tanti, oltre 300 milioni. C'è attualmente una tendenza a ridurre il consumo di tabacco. Nel 2000, ci dice l'OMS, il 27% della popolazione mondiale fumava, nel 2016 il 20%. L'Italia sembra essere in controtendenza. L'Istituto Superiore di Sanità afferma che nel 2018 i fumatori sono diventati 12,2 milioni, un dato in lieve aumento rispetto agli anni precedenti cui si affianca il pesante fardello di 33.700 morti per cancro ai polmoni. Il fenomeno preoccupa in particolare per la diffusione fra i giovani. Fra i 14 e i 17 anni, 1 su 10 fuma abitualmente, 5 su 10 in maniera saltuaria. I danni maggiori sono a carico dell'apparato cardiovascolare per l'azione della nicotina, potente vasocostrittore, e dell’apparato respiratorio a causa dell'inalazione di sostanze cancerogene, formaldeide, benzene, nitrosamine, che si sviluppano con la combustione o si generano durante la lavorazione. Dopo anni di esaltazione, in particolare delle sigarette come oggetto di libertà ed emancipazione, tanto che qualcuno ha considerato il fumo "una sorta di danno collaterale del femminismo". Reale è il netto aumento delle fumatrici in Italia dopo il '68, e dopo anni di pubblicità sfrenata e invasiva, e di una filmografia i cui eroi hanno tutti la sigaretta tra le labbra, da Humphrey Bogart a James Dean, fino ai contemporanei Mel Gibson e Brad Pitt., Smitizzare il fumo non è semplicenonostante i continui richiami del mondo scientifico sui danni da fumo attivo e passivo, che hanno spingono il legislatore italiano a qualche timido tentativo. Non dobbiamo, infatti, dimenticare il regime di monopolio e gli incassi dello Stato dalla vendita di sigarette,14 miliardi di euro l'anno, anche se poi circa metà si spendono per curare i danni fisici provocati dal fumo. Non un grande affare!! È del 1962 un primo, facilmente aggirabile divieto di pubblicità del tabacco; nel '75 si approva la legge che vieta di fumare sui  mezzi di trasporto pubblico e al cinema dove finalmente si può vedere il film senza nuvole di fumo attraversate dal fascio di luce del proiettore, e tornare a casa senza doversi cambiare la giacca impregnata di cattivo odore. A tale proposito un aneddoto che arriva dall’Inghilterra sulla nascita dello smoking. In età vittoriana, a chi dopo la cena si recava in salotto a fumare, per ovviare all'inconveniente che tanto infastidiva le rispettive signore, il padrone di casa forniva una comoda giacca, una smoking jacket: indispensabile capo di abbigliamento delle serate mondane. In verità, in Italia, la lotta al fumo senza quartiere viene intrapresa dal ministro della sanità Sirchia le cui leggi hanno avuto il merito di ridurre almeno gli effetti del fumo passivo. Purtroppo però i fumatori più incalliti continuano a ignorare le scritta sui pacchetti di sigarette, preferendo magari il pacchetto dove si  paventa il cancro ai polmoni  rispetto a quello che minaccia l'impotenza! Al contrario della guerra al fumo quella all'alcool non è mai stata così sistematica se non in casi eccezionali, come durante il proibizionismo nell'America degli anni ‘20-30, che ha fatto danni incalcolabili, non ultimo la crescita esponenziale della criminalità con gli italiani-americani in prima linea. Del resto il vino ha una storia millenaria e a memoria d'uomo si è sempre coltivata la vite. Non è un caso che i romani si erano inventati addirittura un dio, Bacco. Il bere, in particolare i superalcolici, ha rappresentato, in epoche più recenti, quasi uno status simbol. Regnanti e grandi uomini politici, statisti, sono stati grandi bevitori; da Churchill a Eltsin ma anche la Regina Madre, vissuta ben 101 anni, era un'apprezzata esperta di gin. Una lunga fila di scrittori, specie anglo-americani, da Hemingway a Joyce, da Scott Fiztgeral, che ci ha fatto sognare con il suo "Il grande Gatsby" a Faulkner, premio Nobel nel '49, che assiomaticamente affermava: "La civilizzazione inizia dalla distillazione", a Truman Capote che ci ha regalato "Colazione da Tiffany" la cui versione cinematografica consacrò  la deliziosa Audrey Hepburn. Nelle giuste dosi gli effetti benefici del vino sono ben noti: migliora l'umore, favorisce la socializzazione, e ormai acclarate sono le sue virtù terapeutiche legate al tannino, sostanza appartenente alla famiglia dei polifenoli di cui si conoscono, a partire dal resveratrolo, le proprietà antiossidanti. L'abuso fino all'ubriachezza comporta invece alterazioni delle facoltà fisiche e mentali per effetto dell'etanolo, e un elevato consumo nel tempo danni devastanti soprattutto al fegato. Una ricerca Eurispes-ENPAM arriva a quantificare in 435 mila, negli ultimi dieci anni, 2008/2017, i morti per patologie alcool correlate, incidenti stradali, sul lavoro, omicidi legati allo stato di alterazione psichica. L'ultima frontiera è oggi la lotta all'obesità. L'obesità, figlia della società del benessere, della ricca ed eccessiva alimentazione e della sedentarietà, è semplicemente la conseguenza di uno squilibrio fra l'assunzione di cibo e il dispendio di energie ed è un fattore di rischio per molte patologie, da quelle cardiovascolari, al diabete, ad alcune forme di tumore. Per malattie legate all'obesità si calcolano 57mila morti l'anno in Italia. I dati epidemiologici non sono confortanti. Più del 35% degli adulti è in sovrappeso, quasi il 10% francamente obeso. Il dato ancora più allarmante riguarda i bambini: uno su tre è obeso, mentre fra gli adolescenti il rapporto scende a uno su quattro. Fondamentale è una educazione alimentare che favorisca il consumo di prodotti con limitato apporto calorico e incentivare l'attività fisica. Fra gli alimenti il grande nemico, e a ragione, è stato individuato nello zucchero. Da qui la decisione  già in 50 paesi di introdurre la sugar-tax che talora ha comportato anche veri e propri conflitti commerciali fra i vari paesi. L'Italia, per citarne uno, ha faticato non poco, al limite dell'incidente diplomatico, per superare i divieti del Cile all'importazione degli ovetti Kinder, molto apprezzati dai bambini cileni. Ora anche da noi, in Italia, sii parla di una sugar-tax, con l'inevitabile strascico di polemiche anche perché, a dire il vero, si ha l'impressione che, più che a proteggere la salute, punterebbe a raggranellare un paio di cento milioni per le esangui casse dello Stato. Poco l’intento pedagogico, ma forse è meglio così!

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