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di Rossella Gemma

Aumentare l’aderenza alla terapia contro il colesterolo con farmaci da assumere a intervalli sempre più lunghi, efficaci e sicuri. Una sfida sanitaria molto seria se si considera che fino al 50% degli individui abbandona la terapia tradizionale con le statine a un anno dalla prescrizione e che la stragrande maggioranza degli italiani over 50 presenta valori molto al di sopra di quelli consigliati, responsabili di circa 50.000 decessi l’anno, con una spesa sanitaria che arriva a 16 miliardi per costi diretti e indiretti. una prospettiva di miglioramento viene dal nuovo farmaco a mRNA, disponibile in Italia da poco più di un anno, in ragione dei primi dati di efficacia registrati da Cholinet. Si tratta di uno studio multicentrico italiano, il primo e più ampio mai realizzato sulla sicurezza ed efficacia di Inclisiran, la nuova molecola capace di “spegnere” l’mRNA che porta le informazioni utili alla proteina PCSK9, implicata nel trasporto e nella distruzione dei recettori che catturano il colesterolo. 

L’indagine condotta in 30 centri italiani dal gruppo di ricerca guidato dal professor Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli, ha coinvolto 311 pazienti seguiti in ambulatorio per un anno, a cui è stata somministrata la prima dose del nuovo farmaco, in aggiunta alla terapia orale standard. “I pazienti arruolati, al momento della prima somministrazione, avevano valori di colesterolo LDL in media di 112 mg/dl, raggiungendo 50 mg/dl al primo controllo a 3 mesi commenta Perrone Filardi -. I pazienti hanno presentano dunque, una riduzione media dei livelli del colesterolo del 55% che si è mantenuta stabile fino all’ultima osservazione a 10 mesi, con una aderenza record del 100% spiegabile sostanzialmente con la scarsa quantità di effetti collaterali rispetto alle statine e una modalità di somministrazione meno impegnativa, con due iniezioni sottocutanee l’anno anziché una pillola al giorno”.

Ma l’aspetto sicuramente più importante dello studio riguarda l’efficacia del farmaco. “Se questa terapia viene data in aggiunta alle terapie orali convenzionali, circa due terzi dei pazienti ad alto rischio cardiovascolare riescono a raggiungere il target stabilito dalle linee guida correnti, cioè un colesterolo LDL inferiore a 55mg/dl”, evidenzia Perrone.

“Si tratta di un fatto molto importante poiché una delle sfide della prevenzione cardiovascolare è proprio il raggiungimento dei livelli di colesterolo raccomandati dalle linee guida per il proprio livello di rischio - aggiunge Ciro Indolfi, past-president della Società Italiana di Cardiologia e ordinario di cardiologia all’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro -. Non esistono infatti livelli di colesterolo normali in quanto più è alto il livello di rischio individuale del paziente, tanto più basso deve essere il valore di colesterolo LDL”.

In futuro un’altra applicazione della terapia genica a mRNA potrebbe battere il colesterolo ‘genetico’, cioè la lipoproteina a, una forma particolare di colesterolo che, a differenza di altre, è influenzata principalmente dalla genetica, cosa che rende difficile il suo controllo attraverso diete o stile di vita. Sono infatti in fase avanzata di studio nuovi farmaci capaci di abbattere i livelli di lipoproteina a di oltre il 94% con effetti che si protraggono per quasi un anno. Un risultato straordinario considerando che attualmente non esistono trattamenti specifici per la lipoproteina a.  Se gli studi in corso confermeranno l’efficacia nel ridurre i principali eventi cardiovascolari e la sicurezza, questi farmaci costituiranno un passo avanti e una speranza per milioni di persone affette da questa condizione genetica genetico ad alto rischio di malattie cardiovascolari.

 

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di Rossella Gemma

I virus dell'epatite, in particolare la C e la Delta, sono da sempre nemici giurati della salute del fegato. Da qualche tempo, però, le conquiste della ricerca scientifica stanno consentendo progressi insperati nelle terapie. Farmaci che, tuttavia, per avere efficacia devono essere usati in tempo ingaggiando una lotta col virus per stanarlo nelle fasce di popolazione in cui si può annidare. Il tema è stato trattato a Firenze, durante un simposio che si è svolto durante il congresso della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, SIMIT. Il filo conduttore del contrasto epidemiologico ai due sottotipi di epatite è indubbiamente il ruolo cruciale degli screening, come strategia di salute pubblica, ma con variabili e peculiarità da tenere bene a mente. Ad esempio, come spiega Maurizia Brunetto, direttore dell'unità operativa Epatologia dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa, "l'epatite Delta è una malattia rara, perché si genera nei soggetti portatori del virus dell'epatite B che hanno una coinfezione o una superinfezione con il virus dell'epatite Delta. Si stima essere prevalente, a livello italiano, in circa il 7-8% di portatori di HBV".

Ovvero, appunto, dell'hepatitis B virus. "Quindi- aggiunge- si tratta di un numero relativamente modesto di soggetti. Il problema, però, è che la coinfezione, ma soprattutto la superinfezione induce un danno epatico severo a rapida evoluzione. Questo vuol dire che abbiamo soggetti con cirrosi e complicanze prima dei 50 anni, quindi siamo dinanzi a una malattia davvero molto severa con un impatto sull'aspettativa di vita del paziente coinfetto molto drammatica". Le linee guida europee non possono che essere stringenti e suggerire, di rimando, a tutti i pazienti positivi all'epatite B di sottoporsi,ì almeno una volta nella loro vita, a un test per individuare gli anticorpi specifici per la Delta.

"Purtroppo i dati di sorveglianza ci dicono che questo non succede- ammette Brunetto- una percentuale variabile, in Italia per fortuna non molto elevata ma comunque del 20-25%, dei soggetti interessati non viene sottoposta a screening. Questo significa che l'eventuale infezione non viene identificata. In altre nazioni europee la situazione è ben più grave". La fascia di popolazione più a rischio ha una media di 50-60 anni, in sostanza una coda demografica dell'epidemia sviluppatasi in Italia a cavallo fra gli anni '70 e '80, ma attualmente, fa sapere ancora Brunetto, "più del 50% dei casi, almeno nella mia esperienza, riguarda stranieri che hanno un'età media di 35 anni: il 70% di loro ha cirrosi". La silver linings, il risvolto positivo, è che negli ultimi tempi l'approccio terapeutico ha conosciuto un balzo in avanti. Merito di una nuova molecola, la bulevirtide, in grado di bloccare l'ingresso del virus e la sua diffusione nel fegato. Arrivata prima in modalità compassionevole e, successivamente, fornita dallo Stato, un recente studio mostra risultati lusinghieri.

"È un farmaco molto innovativo- spiega ancora la specialista- perché dopo 6-12 mesi di trattamento in oltre il 70% dei pazienti trattati abbiamo visto una importante caduta dei livelli del virus, pari a 2 logaritmi, ma soprattutto un abbattimento della transaminasi". Risultati ancora più apprezzabili, considerato che si tratta di studi di pratica clinica "condotti in pazienti con malattia in fase avanzata e che dimostrano un miglioramento clinico della sintesi epatica, dei livelli delle piastrine e sul carico della malattia". Un cambio di paradigma che risalta ancora di più se si considera l'opzione terapeutica d'elezione: l'interferone in presenza di cirrosi diventa molto difficile da dosare, lasciando dunque "orfani" di una cura.

Non è questo il rischio che corrono i pazienti colpiti da epatite C che, ormai da anni, possono contare su un farmaco in grado di spazzare via il virus. Il problema, in questo frangente, è andare a caccia della carica virale dove si può nascondere: in alcune popolazioni target, ovvero fra tossicodipendenti e detenuti in carcere, ma anche nella popolazione generale. Il vero silver bullet- il proiettile magico, in particolare per centrare il traguardo dell'eradicazione in Italia e nel mondo nel 2030- è una volta di più lo screening. In Italia con un decreto del 2020 è stato attivato un fondo specifico dal valore di 71,5 milioni per testare i soggetti a rischio, ma anche alcune fasce della popolazione, facendo emergere circa 10 mila nuovi casi con infezione attiva.

"L'Italia è a buon punto- racconta Loreta Kondili, ricercatrice del centro nazionale per la salute globale dell'Istituto Superiore di Sanità- possiamo dire che i risultati sono soddisfacenti, anche se in Italia sono 14 le Regioni che hanno attivato lo screening per la popolazione generale e quasi 18 Regioni lo hanno fatto o lo stanno facendo per le popolazioni chiave". Farà la differenza, dunque, insistere sul monitoraggio e sull'indagine prorogando il fondo oltre il 2023 ed estendendo lo screening all'intera popolazione. Attività da affiancare, ad avviso di Kondili, a un'efficace azione di sensibilizzazione da parte delle Regioni verso i pazienti, ma anche nei confronti dei medici specialisti.

 
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di Rossella Gemma

Non c’è più tempo per attendere che altri bambini muoiano, o vadano incontro a disabilità grave, quando potrebbero essere salvati da una diagnosi precocissima e dalle terapie disponibili. Sono sessantacinque, tra associazioni e federazioni, le realtà che hanno sottoscritto una lettera-appello indirizzata al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro della Salute Orazio Schillaci e al Sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato. La richiesta è chiara: rendere operativo lo Screening Neonatale anche per le nove patologie che sono state ritenute ammissibili dal Gruppo di Lavoro sullo SNE, nominato dal Ministero stesso.

Parliamo di Atrofia muscolare spinale (SMA), Mucopolisaccaridosi tipo 1 (MPS I), Immunodeficienze combinate gravi (Deficit di adenosina deaminasi (ADA-SCID) e Deficit di purina nucleoside fosforilasi (PNP-SCID)), Adrenoleucodistrofia X-linked (X-ALD), Iperplasia surrenalica congenita (SAG), Sindrome Adrenogenitale, Malattia di PompeMalattia di Fabry (X-linked) e Malattia di Gaucher. Sono le patologie, citate nella lettera, che hanno ottenuto parere positivo all’inserimento nel panel di screening dal Gruppo di Lavoro istituito dal Ministero della Salute nell’estate 2021. Sono passati oltre due anni, ma dell’ampliamento ancora nessuna conferma né formalizzazione.

L’iniziativa è stata promossa da AIAF – Associazione Italiana Anderson-Fabry APS, associazione che aderisce all’Alleanza Malattie Rare, e che ha trovato subito il sostegno di moltissime altre realtà legate al mondo delle malattie rare e della disabilità.

“Da sempre AIAF sostiene l’importanza dell’allargamento dello Screening Neonatale in modo omogeneo in tutta Italia, senza differenze regionali – spiega Stefania Tobaldini, Presidente dell’Associazione Italia Anderson-Fabry Aps – Anche per la Malattia di Fabry la diagnosi alla nascita può evitare compromissioni multiorgano estremamente debilitanti e permettere una buona qualità di vita. Sapere che esiste una lista di malattie rare, tra cui la Fabry, già pronte per essere inserite nel panel di Screening Neonatale Esteso (SNE), ma in stallo da due anni per lungaggini burocratiche, rappresenta davvero qualcosa di inaccettabile. Per questo, insieme ad altre 64 tra associazioni e federazioni abbiamo deciso di sollecitare un’accelerazione da parte del Ministero della Salute perché recepisca l’intera lista inserita nelle raccomandazioni del Gruppo di Lavoro sullo SNE”.

"Crediamo che questa battaglia delle associazioni meriti il massimo della visibilità – dichiara Ilaria Ciancaleoni Bartoli, Direttrice di Osservatorio Malattie Rare – si tratta di una norma disattesa, di un diritto negato. Ci auguriamo che tutti i media vogliano supportare le associazioni in questa loro legittima richiesta e con noi insistano per far pressione sui decisori, che purtroppo stanno esercitando molto bene l'arte di non decidere".

 

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di Rossella Gemma

C’è una “relazione pericolosa” fra la miopia, un problema in aumento esponenziale soprattutto fra i giovani, e il distacco di retina, un evento grave che è una delle cause più frequenti di perdita della vista. La miopia, specialmente se elevata e quindi superiore a 6/8 diottrie, indebolisce l’occhio e fa salire il rischio di distacco retinico, che nel nostro Paese si stima riguardi 50mila casi l’anno. L’epidemiopia, ovvero l’epidemia di miopia che sta dilagando nel mondo con 2,6 miliardi di persone colpite, più del doppio dell’obesità, rischia di portare anche a un’epidemia di distacchi di retina. Dal 2009 al 2016, stando a recenti dati raccolti in Olanda e pubblicati su Jama Ophthalmology, il numero di casi è cresciuto del 44% e ciò non si può spiegare solo con l’incremento della popolazione, pari al 3%, ma proprio con la crescita continua dei casi di miopia. Il 30% della popolazione globale è costretto già oggi a portare gli occhiali per vedere da lontano, ma le previsioni degli Oms stimano che entro il 2050 si arriverà al 50%. Tutto questo preoccupa gli esperti che, in occasione dell’11esimo congresso internazionale Floretina ICOOR, a Roma da oggi al 3 dicembre con il patrocinio di Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli IRCCS, hanno lanciato l’allarme: occorre prevenire la miopia e soprattutto far sì che le persone con questo difetto della vista si sottopongano a controlli regolari e siano informate dei sintomi del distacco di retina a cui prestare attenzione, così da rivolgersi subito allo specialista. 

L’incremento dell’incidenza dei distacchi di retina del 44% osservato fra il 2009 e il 2016 dal Dutch Rhegmatogenous Retinal Detachment Study, non spiegabile attraverso l’aumento della popolazione o anche del numero di interventi chirurgici oftalmologici come la cataratta, porta a temere che l’epidemia di miopia possa provocare anche un’epidemia di distacchi di retina nel prossimo futuro – osserva Stanislao Rizzo, presidente di Floretina ICOOR, direttore del dipartimento di oculistica del Policlinico A. Gemelli IRCCS e Ordinario di oculistica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore –. Uno studio statunitense pubblicato di recente su Scientific Reports  ha confermato i timori: analizzando i dati di oltre 85 milioni di persone si è verificato che in chi ha una miopia elevata il rischio di distacco retinico cresce di ben 39 volte, nei miopi più lievi è comunque triplo rispetto alla norma. L’occhio miope è infatti più fragile perché molto allungato, le trazioni interne che si creano possono contribuire ad aumentare il pericolo di distacco retinico”.

Il distacco di retina si ha quando uno strato di questo tessuto si solleva da quello sottostante, che fornisce nutrimento e ossigeno alle cellule retiniche: queste in breve tempo iniziano a morire, comportando una grave perdita di capacità visiva. La retina non ha recettori per il dolore, ma subito prima del distacco retinico si hanno sintomi evidenti fra cui, come spiega Francesco Faraldi, Direttore della Divisione di Oculistica dell’Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano – Umberto I di Torino , “le miodesopsie, ovvero corpi fluttuanti come macchie, punti neri, ‘mosche’ che offuscano la visione. Si possono poi avere lampi di luce improvvisi nella zona periferica del campo visivo o la visione di un’ombra scura. In questi casi è fondamentale rivolgersi prima possibile a un’oculista; è inoltre opportuno che chi è miope, per valutare lo stato di salute della propria retina, si sottoponga annualmente a una visita di controllo. Questo vale fin da giovanissimi: il distacco di retina non è appannaggio esclusivo degli adulti e fino al 6% dei casi riguarda la popolazione pediatrica con meno di 12 anni. Nella maggior parte dei casi si tratta di eventi successivi a traumi, ma nel 15% la colpa è di una miopia elevata, come indicano recenti dati dell’American Academy of Ophthalmology§. Anzi, come ha dimostrato un recente studio su Clinical Ophthalmology§§, è proprio la presenza di una miopia elevata ad associarsi a distacchi retinici in età più giovane: la maggioranza dei casi avviene fra i 45 e i 60 anni, ma prima accade l’evento, più è probabile la concomitanza di una miopia elevata, presente nel 40% dei distacchi di retina under 50 e soltanto nel 13% degli over 50. Con l’andare degli anni, quindi, il ‘peso’ della miopia sulla fragilità della retina si riduce ed è perciò importante fare controlli regolari e prestare attenzione ai segnali d’allarme”, conclude Faraldi.

La miopia è la difficoltà di vedere da lontano. I miopi hanno il bulbo oculare “a palla da rugby”, più lungo della norma: ciò fa sì che gli oggetti distanti non vengano messi a fuoco esattamente sulla retina – spiega Rizzo -. L’allungamento del bulbo oculare è dovuto in parte a cause genetiche e in parte, prevalente, all’eccessiva visione da vicino, che costringe l’occhio a spostare la messa a fuoco”. Questa condizione, spesso sottovalutata, può portare ad alterazioni gravi come il distacco di retina, ma anche all’aumento del rischio di glaucoma e maculopatie. Per 500 milioni di persone colpite da miopia elevata, questa sarà causa secondo l’Oms di cecità irreversibile. Eppure, mai come oggi, nei casi che non dipendono da ereditarietà, è possibile prevenirla o rallentarne l’evoluzione per evitare pericolose conseguenze.

In aumento esponenziale tra bambini e giovani, la miopia, a differenza che in passato, insorge ormai intorno ai 10 anni anziché a 13-15 e si stabilizza a 30 anni e non più a 18 – aggiunge Rizzo -. Per prevenirla è dunque necessario ridurre l’uso eccessivo di tablet e smartphone, più dannosi della tv, e trascorrere un paio di ore al giorno all’aria aperta”. 

Se in passato le uniche armi per la miopia erano le lenti correttive e l’intervento di chirurgia refrattiva di rimodellamento della cornea, adesso ci sono rimedi che permettono di rallentarne la progressione. “Tra i più efficaci, un collirio a base di atropina estremamente diluita, che agisce su alcuni recettori dei tessuti dell’occhio. Sebbene il meccanismo esatto dell'atropina nel controllo della miopia non sia noto, si ritiene che l'atropina agisca direttamente o indirettamente sulla retina o sulla parete oculare, contrastando quindi la crescita dell'occhio”.

Da qualche anno, poi – aggiunge l’esperto – sono arrivate delle lenti a defocalizzazione periferica, cioè una messa a fuoco perfetta al centro, come le lenti tradizionali, e l’inserimento nella parte esterna di una serie di microlenti di circa 1 millimetro che hanno un fuoco spostato in avanti. In questo modo creano meno stimolo e meno allungamento del bulbo oculare, con un’efficacia del 50% nel rallentamento della velocità di progressione della miopia”, conclude Rizzo.

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di Rossella Gemma

"Sulla fecondazione in vitro è urgente impiegare con maggiore sistematicità le nuove metodologie che oggi vengono adottate per migliorarne il successo, considerato che le problematiche relative alla sterilità di coppia hanno assunto una notevole rilevanza sociale, in un Paese a crescita zero e con un saldo negativo tra nascite e morti. Attualmente, in Italia la fecondazione in vitro contribuisce al 3% circa delle nascite, vale a dire circa 11mila nati, mentre nel mondo sono nati più di 5 milioni di bambini". È l'allarme lanciato dal professor Ermanno Greco, presidente della Società Italiana della Riproduzione (S.I.d.R.), in occasione del Congresso Nazionale della Società che si è aperto oggi a Roma. L'evento, in programma fino a domani presso la sede dell'Università Medica Internazionale UniCamillus di Roma, è organizzato insieme alla Società Italiana Policistosi Ovarica (SIPO) per affrontare, in un dibattito diffuso con medici e ricercatori, le tante tematiche del settore.

 Secondo Greco, occorre "un'attenta riflessione anche sull'età delle donne" che decidono di affrontare questo tipo di percorso. "Oggi- ha precisato- l'età media di accesso della donna a un Centro di fecondazione assistita è superiore ai 38 anni e ciò determina notevoli ripercussioni sulle percentuali di successo dell'intervento, che sono del 15% a fresco e del 35% cumulativo". Il Congresso ha messo allora in luce le tecniche da "adottare in questa fascia di pazienti- ha spiegato Greco- dai protocolli di stimolazione ormonale a quelli utilizzati per scegliere l'embrione migliore da trasferire all'interno della cavità uterina, con un focus particolare sulla tecnica di diagnosi genetica preimpianto". Il Congresso ha quindi permesso di approfondire temi complessi come la fecondazione in vitro, il ruolo della diagnosi genetica preimpianto e quello relativo alle patologie oncologiche, ginecologiche e dell'endometriosi. È stata inoltre l'occasione per parlare delle tecniche di preservazione della fertilità, del ruolo dell'infertilità maschile e delle disfunzioni sessuali, ma anche delle strategie di supporto alla Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) nella donna con la Sindrome dell'ovaio policistico, con un nuovo approccio green alle tecniche di procreazione assistita.
 
Ampio spazio al Congresso è stato assegnato alle tecniche di preservazione della fertilità femminile, che rivestono un'importanza strategica in una società in cui la donna cerca la gravidanza sempre più tardi. Ad aprire dibattiti e problematiche è però anche l'infertilità maschile, che oggi è in costante aumento, tanto da arrivare a costituire il 50% delle infertilità di coppia. In questa prospettiva, ha detto Greco, assumono un rilievo "sempre maggiore sia la diagnosi sia le terapie in grado di migliorare la capacità fecondante dello spermatozoo a base di ormoni o di integratori naturali". L'inquinamento atmosferico comporta "drammatiche" ricadute sulla fertilità umana ed è "essenziale" mantenere uno stile di vita sano, grazie soprattutto a un regime alimentare che vede nella Dieta Mediterranea un punto di riferimento fondamentale.
 
"L'alto livello di agenti inquinanti nell'aria di molte città italiane- ha sottolineato Greco- è infatti una delle principali cause dell'infertilità maschile e femminile, e dell'insorgenza di malattie genetiche. In un periodo di ecosostenibilità non sfugge neanche la fecondazione in vitro, soprattutto con l'incremento del numero dei cicli in Italia (nel 2020 circa 90mila) e a livello mondiale (circa un milione e mezzo). Al riguardo, occorre sviluppare meglio le strategie da adottare per diminuire l'impatto sull'ambiente delle tecniche di fecondazione assistita".
 
Tra i tanti temi del Congresso, infine, anche la fecondazione eterologa, possibile in Italia dal 2014 grazie a una sentenza specifica della Corte Costituzionale. Questa tecnica è in "costante aumento- ha aggiunto Greco- e sempre minore è il numero di pazienti che si reca all'estero per praticarla. Sono circa 11mila le coppie che nel 2021 si sono sottoposte a tale procedura, con una percentuale di nati vivi intorno al 30%, pari a circa 3.000 bambini nati", ha concluso.
 
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di Rossella Gemma

Per lungo tempo considerata solo come un fattore di rischio per il cancro, uno studio dell’University of Chicago riabilita, almeno in parte, il consumo di carne rossa. I ricercatori hanno scoperto infatti che nella carne e nei latticini provenienti da animali da pascolo come mucche e pecore, si cela un nutriente, l’acido trans-vaccenico (TVA), che l’organismo umano non può produrre da solo e che potrebbe essere in grado di rafforzare la risposta immunitaria contro il cancro, oltre che a potenziare l’efficacia dell’immunoterapia. I risultati, appena pubblicati sulla rivista Nature, saranno discussi in occasione della nona edizione dell’Immunotherapy Bridge, che si terrà a Napoli dal 29 al 30 novembre, e della 14esima edizione del Melanoma Bridge che si terrà subito dopo, dal 30 al 2 dicembre. Entrambe le manifestazioni saranno l’occasione per i numerosi relatori che vi prenderanno parte, provenienti da tutto il mondo, di presentare le ultime novità sull’immunoterapia nella cura dei tumori.

“Sono sempre più numerose le evidenze scientifiche che legano l'alimentazione alla risposta all'immunoterapia - commenta Paolo Ascierto, direttore SC Oncologia Medica Melanoma Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale di Napoli -. Tuttavia, è molto difficile comprendere i meccanismi sottostanti a causa dell’ampia varietà di cibi che le persone mangiano. Il merito dei colleghi dell'Università di Chicago è quello di essersi concentrati solo sui nutrienti e sui metaboliti derivati dal cibo, trovandone uno in particolare, lo TVA, che migliora l’immunità antitumorale attivando un importante percorso immunitario. In particolare, i ricercatori hanno dimostrato che il TVA è in grado di migliorare la capacità delle cellule T CD8+ di infiltrarsi nei tumori e uccidere le cellule tumorali. Lo studio mostra anche che i pazienti con livelli più elevati di TVA circolante nel sangue hanno risposto meglio all’immunoterapia, suggerendo che lo TVA potrebbe integrare i trattamenti clinici per il cancro”.

Nello studio i ricercatori hanno analizzato 700 noti metaboliti che provengono dal cibo e hanno assemblato una “libreria” di 235 molecole bioattive derivate da nutrienti. Successivamente hanno esaminato questi composti per valutare la loro capacità di influenzare l’immunità antitumorale attivando le cellule T CD8+, un gruppo di cellule immunitarie fondamentali per uccidere le cellule cancerose o infette da virus. Dopo aver valutato i primi sei composti, gli scienziati hanno visto che lo TVA ha ottenuto i risultati migliori. 

“Lo TVA è presente nel latte umano, ma il corpo non è in grado di produrlo da solo - spiega Ascierto -. Solo il 20% circa dello TVA viene scomposto in altri sottoprodotti, lasciandone l'80% in circolo nel sangue. Gli esperimenti condotti dagli scienziati dell'Università di Chicago su modelli murini di diversi tumori hanno rilevato che una dieta arricchita con lo TVA riduce significativamente il potenziale di crescita del melanoma e delle cellule del cancro del colon. La dieta con TVA ha anche migliorato la capacità delle cellule T CD8+ di infiltrarsi nei tumori”.

Il team ha inoltre eseguito una serie di analisi molecolari e genetiche per comprendere come lo TVA influenzie le cellule T. Questi test aggiuntivi hanno dimostrato che lo TVA inibisce un recettore sulla superficie cellulare chiamato GPR43, che viene solitamente attivato dagli acidi grassi a catena corta spesso prodotti dal microbiota intestinale. Lo TVA prevale su questi acidi grassi a catena corta e attiva un processo di segnalazione cellulare noto come “percorso CREB”, che è coinvolto in una varietà di funzioni tra cui la crescita cellulare, la sopravvivenza e la differenziazione. Infine, il team ha anche analizzato campioni di sangue prelevati da pazienti sottoposti a trattamento immunoterapico con cellule CAR-T per il linfoma, una terapia che consiste nella modificazione dei linfociti T del paziente. Hanno così osservati che i pazienti con livelli più alti di TVA tendevano a rispondere meglio al trattamento rispetto a quelli con livelli più bassi. Hanno anche testato linee cellulari legate alla leucemia, e hanno visto che lo TVA migliora la capacità di un farmaco immunoterapico di uccidere le cellule tumorali. 

“Ma attenzione: lo studio non indica di eccedere nel consumo di carne rossa e latticini – precisa Ascierto -. Piuttosto i risultati suggeriscono che lo TVA potrebbe essere utilizzato come supplemento alimentare per contribuire ad aumentare l’efficacia dei trattamenti immunoterapici, anche se è importante determinare la quantità ottimale del nutriente stesso da assumere. Ciò che conta infatti è il nutriente TVA e la sua eventuale assunzione nelle dosi giuste, non la sua fonte (carne e latticini)”.

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Pregiatissimi,

la tematica della qualità dell'aria è diventata sempre più determinante.

Facendo seguito ad invito pervenuto da parte dell'OMS sono a richiedervi l'adesione a questo appello promosso dall'OMS (https://www.who.int/teams/environment-climate-change-and-health/call-for-climate-action/) in vista della COP28, in occasione della quale, per la prima volta sarà dato ampio spazio alla salute. Sono importanti anche le adesioni dei singoli medici.

Prego quindi anche gli organismi, enti e associazioni, destinatari di questa mail di diffonderla tra i propri iscritti.

L'obiettivo è dimostrare l'ampio consenso della categoria medica, del mondo sanitario rispetto alle politiche e strategie per migliorare la crisi climatica ai fini della salute delle popolazioni di tutto il mondo.

Questo appello è per altro in linea con similari azioni che si stanno in questo periodo portando avanti relative alla qualità dell'aria, sia a livello nazionale ovvero
che a livello europeo ovvero:

Cordiali saluti,
Roberto Romizi

Associazione Medici per l'Ambiente - ISDE Italia
Via XXV Aprile n.34 - 52100 Arezzo - tel 0575 23612
Web www.isde.it,
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di Rossella Gemma

Conoscere il proprio rischio di sviluppare il diabete, è il tema del World Diabetes Day 2023 che si svolge in tutto il mondo il 14 novembre. Con 62 milioni di persone affette in Europa di cui più di 4 milioni in Italia, il diabete è la quarta causa di morte. Sono infatti 80mila le morti solo nel nostro Paese, pari a 9 decessi evitabili ogni ora. Ancor più grave è constatare che dal 2000 ad oggi i casi sono raddoppiati, mentre si stima che ci sia almeno un milione di persone con diabete non diagnosticato. 

Ecco perché il tema della Giornata Mondiale di quest’anno è #knowyourrisk, knowyourresponse (conosci il tuo rischio, conosci la tua risposta), sottolineato anche nella conferenza di presentazione organizzata in collaborazione tra Intergruppo parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili e FeSDI - Federazione delle società scientifiche diabetologiche italiane, costituita da SID - Società Italiana di Diabetologia e AMD - Associazione Medici Diabetologici, svoltasi stamattina presso il Ministero della Salute. 

«I numeri dimostrano la necessità di risposte ed azioni tempestive ed efficaci sia assistenziali, ma anche capaci di produrre un cambiamento culturale», dichiara il Ministro della Salute Prof. Orazio Schillaci, «Grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e alle recenti misure previste nella manovra finanziaria, potremo finalmente realizzare un nuovo modello organizzativo di medicina territoriale che assicurerà ai diabetici quella multidisciplinarietà che è cruciale per una gestione ottimale della malattia e per prevenire l’insorgenza di complicanze. Ma la sfida non facile che ci attende è anche quella di promuovere la cultura della prevenzione primaria e secondaria, di accrescere la consapevolezza nei nostri concittadini dell’importanza dell’adozione di stili di vita sani e di eseguire controlli periodicamente».

Il World Diabetes Day è la più ampia campagna di awareness al mondo, lanciata nel 1991 dalla International Diabetes Federation e dall’OMS, che non solo promuove l’importanza di azioni coordinate, ma si propone di individuare le criticità e ideare strategie per superarle.  Un evento globale che ogni anno raccoglie una audience di circa 1 miliardo di persone in 160 paesi. 

Un adulto su dieci nel mondo soffre di diabete. Oltre il 90 per cento soffre di diabete di tipo 2. Quasi la metà non è ancora stata diagnosticata. In molti casi, il diabete di tipo 2 e le sue complicanze possono essere ritardati o prevenuti adottando e mantenendo abitudini sane. Essere consapevoli del proprio rischio di diabete di tipo 2 significa essere in grado di prendere decisioni informate riguardo alla propria salute. Questa consapevolezza può spingere le persone a monitorare regolarmente i loro livelli di zucchero nel sangue ma non solo: controllare il colesterolo e la pressione arteriosa. Conoscere il rischio e cosa fare è importante per supportare la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento tempestivo.

In Italia nel 2021 sono stati registrati 15.205 ricoveri legati alle complicanze del diabete, con un tasso medio di ospedalizzazione stabile rispetto al 2020 (Rapporto Esiti Agenas 2022), mentre permane una criticità nei ricoveri ‘potenzialmente evitabili’: si spendono infatti oltre 50 milioni di euro per ricoveri legati all’ipoglicemia.

Il diabete aumenta il rischio di ospedalizzazione per diversi fattori. Le persone con diabete corrono un rischio due volte maggiore di essere ricoverate, rispetto alle persone senza diabete. Il 20-25 per cento delle persone con diabete viene ricoverato almeno una volta durante l’anno e, mediamente, la durata del ricovero aumenta del 20 per cento in presenza di diabete. Il paziente affetto da diabete presenta un rischio aumentato di soffrire di altre malattie non trasmissibili come neoplasie e broncopneumopatia cronica ostruttiva.

La malattia sta diventando un'epidemia globale, con milioni di persone coinvolte a causa dell’aumento ponderale, la sedentarietà e cattivi stili di vita. Tuttavia, conoscere il proprio rischio di sviluppare il diabete è il primo passo cruciale verso la prevenzione e la gestione efficace di questa condizione. Da qui le iniziative organizzate anche in Italia per sensibilizzare su questi temi. Un'onda blu fatta di luce ha illuminato ieri sera  diversi monumenti di Roma per annunciare la Giornata Mondiale del Diabete e promuovere l’attenzione sui rischi e l’importanza di agire contro questa malattia. Molti luoghi iconici si sono passati il testimone, illuminandosi a intervalli di 20 minuti ciascuno: Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina, Arco di Giano, Tempio di Portuno, Tempio di Ercole, Teatro Marcello, Colosseo, Statua Mazzini, Fontana dell’Acqua Paola, Arco di Costantino, Cerchio Galleria d’Arte Moderna, Piazza della Repubblica, Piramide Cestia, Statua Garibaldi, Tempio di Saturno. Dal pomeriggio di ieri e per tutta la giornata di oggi saranno inoltre esposti a Roma, in piazza San Silvestro, 17 manifesti informativi sui temi della Giornata Mondiale. E si svolgerà oggi e domani presso il Senato della Repubblica, su iniziativa della Sen. Daniela Sbrollini, Presidente dell’Intergruppo parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili, in collaborazione con FeSDI, uno screening rivolto ai parlamentari, con l’obiettivo di promuovere la cultura della prevenzione e porre il tema al centro dell’opinione pubblica e dell’agenda istituzionale.

«La Giornata Mondiale del Diabete di quest’anno invita a conoscere il proprio rischio, il che significa, fare prevenzione, favorire la diagnosi precoce, pianificare i trattamenti al fine di controllare le complicanze», dichiara la Sen. Daniela Sbrollini, Presidente Intergruppo Parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili e Vicepresidente della X Commissione Affari sociali, sanità, lavoro e previdenza sociale del Senato, «Dobbiamo portare avanti un lavoro su più fronti: assicurare ai sanitari formazione e risorse adeguate per prestare la migliore assistenza e diminuire il “carico di malattia”, garantire l’accesso ai servizi, alle terapie e alle informazioni, per tenere sotto controllo i livelli glicemici e rallentare la progressione della malattia verso stadi più severi, consentire un accesso equo per tutti alle strutture di diabetologia. Come Intergruppo siamo fortemente impegnati verso questi obiettivi, anche attraverso l’impulso legislativo, e sono convinta che questa alleanza fra mondo scientifico e istituzionale sia determinate nel contrasto a questa pandemia».

«Il diabete, come anche l’obesità, sono malattie croniche che comportano gravi ripercussioni sulla qualità della vita di chi ne è affetto, portando spesso allo sviluppo di ulteriori complicanze, e con un impatto importante sull’economia del Paese con costi diretti, sociali, economici e clinici e costi indiretti legati alla perdita di produttività», dichiara l’On. Roberto Pella, Presidente Intergruppo Parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili e Vicepresidente Vicario di ANCI, «Occorre un impegno sinergico nel mettere il tema al centro dell’agenda politica e garantire alle persone con diabete gli stessi diritti delle persone sane, portando avanti un’alleanza tra scienza e istituzioni, e promuovendo a tutti i diversi livelli di governo la cultura dei sani stili di vita e della prevenzione».

«Conoscere il proprio rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 è fondamentale per adottare uno stile di vita sano e prevenire la sua insorgenza. Individuare fattori come familiarità o stili di vita che possono predisporre alla malattia è di fondamentale importanza», sottolinea il Prof. Angelo Avogaro, Presidente FeSDI e SID, «Una valutazione accurata del rischio può identificare le persone a rischio elevato, consentendo loro di adottare misure preventive efficaci, come una dieta equilibrata, l'esercizio fisico regolare e il controllo del peso. Queste azioni possono ritardare o addirittura prevenire l'insorgenza del diabete di tipo 2, migliorando notevolmente la qualità della vita e limitando la mortalità evitabile, dato che la maggior parte delle persone con diabete perde la vita per complicanze cardiovascolari».

«Anche quest’anno, celebriamo la Giornata mondiale del Diabete con l’obiettivo di promuovere e sostenere una maggiore consapevolezza sul diabete mellito di tipo 2: una malattia complessa, che, complici stili di vita non salutari, prosegue inesorabile la sua crescita, colpendo persone di età sempre inferiore e che, spesso vivono in condizioni di vita precarie, ma che resta prevenibile», specifica il Prof. Riccardo Candido, Vicepresidente FeSDI e neo Presidente Nazionale AMD,  «Per arrestare la corsa di questa patologia, come anche dell’obesità  - primo fattore di rischio del diabete tipo 2  - è fondamentale trasmettere a cittadini e pazienti l’importanza di adottare sani stili di vita, in termini di alimentazione e attività fisica, soprattutto se in presenza di storie di diabete in famiglia (familiarità). Conoscere il rischio di insorgenza della malattia, insieme agli strumenti di prevenzione primaria, consente di intervenire tempestivamente e ridurre l’impatto potenziale della malattia». 

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di Rossella Gemma

Un italiano su 10 soffre di malattia renale cronica (MRC), ma nella maggior parte dei casi non ne è consapevole. La malattia, infatti, può restare a lungo asintomatica. La diagnosi tardiva può causare il progressivo declino della funzionalità renale, rendere le terapie meno efficaci, fino a portare alla necessità di sottoporsi a dialisi o a trapianto di rene. Inoltre, la malattia renale si accompagna a un notevole aumento di co-morbilità e mortalità cardiovascolare. La prevenzione primaria e la diagnosi precoce risultano, quindi, pilastri fondamentali su cui investire per migliorare la qualità di vita dei pazienti, assicurare trattamenti più efficaci e ridurre i costi per il Servizio Sanitario Nazionale.

“La malattia renale cronica è definita come una condizione di alterata funzione renale che persiste per più di 3 mesi ed è classificata in 5 stadi di crescente gravità, il cui stadio finale necessita di dialisi o trapianto. I principali fattori di rischio per MRC sono il diabete, l’ipertensione, la familiarità per malattie renali e precedenti eventi cardiovascolari. Il numero di persone affette da MRC è in aumento nel mondo; in Italia si stima siano circa 6 milioni, principalmente in fase iniziale. Nelle sue fasi iniziali la malattia può essere silente; così, è ancora spesso sottovalutata e diagnosticata tardivamente” spiega il prof. Loreto Gesualdo, Università Aldo Moro di Bari, Presidente della Federazione Italiana delle Società Medico-Scientifiche (FISM). “Per molto tempo gli strumenti terapeutici sono stati limitati; oggi vi sono nuove opzioni, come la classe di farmaci SGLT2i, che hanno mostrato importanti benefici cardiovascolari e renali, con un’efficacia maggiore se assunte nelle prime fasi della malattia”.

Da questo punto di vista, una diagnosi tempestiva risulta fondamentale nell'ottica di una migliore presa in carico e gestione del paziente, e il ruolo del medico di medicina generale è quindi essenziale per identificare i pazienti a rischio e nelle prime fasi della patologia, grazie a esami semplici come analisi del sangue e delle urine, così da intervenire precocemente, riducendo la necessità di trattamenti complessi e ad alto impatto sulla qualità di vita come la dialisi.  Per raggiungere questo scopo è essenziale promuovere una stretta collaborazione tra medici di medicina generale e specialisti, nefrologi, in primis, ma anche cardiologi e diabetologi.

Risponde a questa esigenza anche l’iniziativa nazionale WEEKIDNEY che vede la collaborazione tra medici di medicina generale (MMG) e specialisti nefrologi per promuovere la salute dei reni. L'iniziativa intende sensibilizzare l’opinione pubblica sulla malattia renale cronica e offrire a persone con diagnosi o a rischio di MRC la possibilità di effettuare una consulenza nefrologica gratuita e ricevere consigli utili alla prevenzione e alla gestione della malattia. “Il medico di medicina generale, oltre che figura chiave per le attività di prevenzione, gioca un ruolo cruciale come prima figura ‘sentinella’ in grado di diagnosticare precocemente e promuovere percorsi virtuosi di assistenza integrata con il nefrologo e altre figure sanitarie. Purtroppo, in diversi Paesi, inclusa l’Italia, esiste a oggi un ‘gap di consapevolezza’ nel riconoscere la MRC. L’iniziativa WEEKIDNEY offre quindi a medici e specialisti un’occasione di confronto, crescita e condivisione sulle necessità dei pazienti e i nuovi modelli assistenziali da applicare” aggiunge il dott. Gaetano Piccinocchi, Medico di Medicina Generale e Membro della Giunta Esecutiva Nazionale della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (SIMG). Le consulenze si svolgeranno a partire dalla seconda metà di novembre 2023 presso ambulatori di MMG distribuiti sul territorio nazionale. Le persone che hanno già una diagnosi di MRC o presentano importanti fattori di rischio per questa malattia saranno invitate dal loro MMG a incontrare presso il suo ambulatorio un nefrologo per una consulenza specialistica gratuita.

“L’iniziativa WEEKIDNEY è importante innanzitutto perché contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, aumentando la consapevolezza sulla necessità della prevenzione e della diagnosi precoce, sui sintomi da non sottovalutare e sulla corretta gestione della malattia per cercare di rallentare l’entrata in dialisi. Convivere con la MRC presenta importanti sfide per i pazienti e i caregiver, anche di carattere psicologico e sociale. Una gestione integrata del percorso diagnostico-terapeutico, attraverso reti territoriali strutturate di medici, specialisti e operatori sanitari, può non solo portare benefici per la salute e qualità della vita dei pazienti, ma anche farli sentire più supportati dal punto di vista psicologico” sottolinea il prof. Massimo Morosetti, Presidente Fondazione Italiana del Rene (FIR) e Direttore UOC nefrologia e dialisi ospedale GB Grassi Roma.

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di Rossella Gemma

L’Area critica e l’Area terapia intensiva sono certamente quelle in cui sono maggiormente occupati gli specialisti anestesisti-rianimatori. Secondo i dati SIAARTI, infatti, il 54% degli iscritti alla Società riconoscono la Rianimazione e la Terapia intensiva come il proprio principale ambito di lavoro. «Il Congresso nazionale ICARE 2023, che durerà fino a domani 28 ottobre, è un momento di divulgazione scientifica e crescita professionale, importante anche per le tematiche inerenti l’area critica» – spiega il Responsabile del Comitato scientifico SIAARTI, Andrea Cortegiani. «Vi vengono discussi gli aspetti più innovativi, importanti e spesso controversi – sul piano scientifico o etico – su tematiche legate all’attività clinica di tutti i giorni, oltre che le più importanti pubblicazioni scientifiche recenti, con spazio di dialogo su applicazione clinica e spunti per ricerche future».

Tra i temi affrontati in questo ambito, sicuramente l’importanza della “personalizzazione” delle cure in pazienti affetti da sepsi e shock settico, l’insufficienza respiratoria con necessità di supporto respiratorio, nonché i metodi con i quali poter “fenotipizzare” la diagnosi e la terapia su pazienti critici per una cura personalizzata. «Per garantire le migliori cure ai nostri pazienti, affronteremo la fondamentale discussione sulla qualità del nostro lavoro di anestesisti-rianimatori», continua Cortegiani. «In questo ambito, si fa sempre più spesso ai concetti di “fatigue”, cioè la stanchezza, la demotivazione e il burnout che – in una percentuale crescente di colleghi – accompagnano il nostro lavoro, e di “well-being”, cioè alla necessità di perseguire anche il benessere del personale sanitario, a causa del loro impatto sulla qualità delle cure prestate ai pazienti, soprattutto in area critica».

Quello su cui si concentra sempre più l’attenzione della disciplina è infatti un approccio ancora più olistico al paziente critico, che è stato affrontato ad esempio nella sessione dedicata al cosiddetto bundle ABCDE. «Il senso del bundle ABCDEF è quello di definire una serie di azioni coordinate nella presa in carico di un paziente in condizioni critiche che consideri tutti gli aspetti della cura, non solo medica ma anche infermieristica, non solo di interventi sanitari ma anche di umanizzazione delle cure, non solo della funzione di organi importanti per la sopravvivenza ma dell’intera persona», spiega con chiarezza Nicola Latronico, Responsabile dell’Area culturale SIAARTI Rianimazione e Terapia intensiva. Ma in quale modo? In cosa consiste? «Il bundle è una serie di processi che include la valutazione, prevenzione e trattamento del dolore, della sedazione e della ventilazione, della scelta più adeguata dei farmaci analgesici e sedativi, del delirium, della mobilizzazione precoce e, non ultimo, del ruolo della famiglia, sia come parte attiva del progetto di cura che come oggetto di cura: le famiglie sono essenziali per creare il rapporto fiduciario con un’équipe che il paziente non ha potuto scegliere, ma esse stesse devono essere sostenute lungo il cammino tribolato e incerto che auguralmente consentirà il recupero del paziente», risponde Latronico.

Un altro tema affrontato nel Congresso ICARE è infatti quello della “vita dopo la terapia intensiva” e degli effetti a lungo termine dopo la dimissione da questi reparti. «Oggi la mortalità in terapia intensiva è ridotta per molte patologie una volta letali», continua ancora Latronico. «Ciò ha determinato il fatto che molti pazienti sopravvivono ad un evento acuto come il trauma, la sepsi e il distress respiratorio con esiti che possono persistere a lungo dopo la dimissione dall’ospedale, o anche per sempre».

Qual è l’impatto di un ricovero in terapia intensiva sui pazienti dopo la dimissione? «La sindrome post-terapia intensiva descrive una serie di alterazioni in campo fisico, cognitivo e mentale che si sviluppano nei sopravvissuti della terapia intensiva e che impattano in modo negativo sulla qualità di vita», risponde Latronico. «La debolezza muscolare, il senso di prostrazione e affaticamento, i disturbi della memoria e del linguaggio, lo stress post-traumatico, le alterazioni del sonno e della sfera sessuale, per citarne alcuni, non solo alterano profondamente il vissuto quotidiano delle persone e la ripresa del lavoro, ma sono solo di rado riconosciuti come entità patologica unitaria; più spesso i pazienti sono costretti ad affrontare frammenti delle loro esperienze patologiche con differenti medici specialisti».

Riconoscere la sindrome post-terapia intensiva è oggi una priorità assoluta per i pazienti, ma anche per il sistema sanitario nazionale e per il campo della ricerca. Conoscere l’esistenza del problema è il primo passo per poterlo curare, anche individuando gli ambiti e le strategie per migliorare i percorsi clinici-organizzativi nelle diverse aree regionali. «Tra i temi che saranno discussi sia dal punto di vista delle evidenze scientifiche e che della applicabilità organizzativa nelle diverse macroaree regionali ci sono infatti proprio gli ambulatori di follow-up per i pazienti dimessi dalle terapie intensive», spiega Vito Torrano, Responsabile della Macroarea Nord di SIAARTI. Ma in cosa consistono tali ambulatori e per quali motivi potrebbero avere un impatto tanto importante sul sistema sanitario? «Essi rappresentano un elemento importante per il recupero dei pazienti dimessi dalle terapie intensive e per il loro recupero nell’autonomia delle attività della vita quotidiana e possono avere un impatto importantissimo sui sistemi socio-sanitari», continua Torrano.
L’introduzione degli ambulatori di follow-up dei pazienti dimessi dalle terapie intensive è un elemento che può offrire spunti di riflessione e dialogo con i pazienti e con le istituzioni: è questa la sfida che SIAARTI, anno dopo anno, continua a lanciare.