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di Rossella Gemma

In Italia, circa il 20% dei casi di tumori al seno sono di tipo Her2+, una forma particolarmente aggressiva perché maggiormente in grado di recidivare e diffondersi in altri organi. Per trattarlo esistono nuove opportunità di cura che possono generare un impatto significativo sulla sopravvivenza, sulla qualità di vita delle pazienti e sull'efficienza dei centri ospedalieri per il Sistema sanitario. Di queste innovazioni si è parlato oggi alla tappa di Bologna del ciclo di incontri Dual Answher2+ promosso da Roche, che ha riunito esperti e specialisti in una giornata di studi al Nh Hotel de la Gare, dopo aver toccato nei giorni scorsi anche Milano e Roma. Focus dell'incontro, l'evoluzione dei percorsi di cura nel carcinoma della mammella, tra innovazioni tecnologiche e terapeutiche: tra queste, sono state prese in esame in particolare le terapie neoadiuvanti e le formulazioni sottocute, sempre più elementi "chiave" che contribuiscono a migliorare i percorsi di cura.
 
In particolare, la rimborsabilità della combinazione di trastuzumab e pertuzumab più chemioterapia ha recentemente modificato il percorso decisionale terapeutico del tumore al seno Her2+ nel contesto neoadiuvante pre-chirurgico. Conosciuta come doppio blocco, ha migliorato la sopravvivenza nelle pazienti ad alto rischio di recidiva. L'introduzione delle formulazioni sottocutanee rappresenta un'altra importante occasione di ottimizzazione del percorso di cura. Rispetto alla formulazione endovenosa, riduce i tempi di allestimento, somministrazione, osservazione e i costi diretti e indiretti, con benefici sia per l'organizzazione del centro ospedaliero che per la qualità di vita delle pazienti.
 
"La terapia neoadiuvante (pre-chirurgica) è ormai lo standard nei tumori Her2+- spiega Claudio Zamagni, direttore Oncologia medica senologica e Ginecologica dell'Ircss Policlinico Sant'Orsola di Bologna- la scomparsa completa del tumore o la sua riduzione al momento dell'intervento sono elementi informativi per la prognosi della paziente: ciò consente di modulare le cure dopo l'intervento, con l'obiettivo di evitare le recidive. L'intervento chirurgico dopo la terapia è ancora necessario per documentare la risposta patologica completa con l'esame istologico, ma noi immaginiamo già il giorno in cui, al posto dell'intervento chirurgico, si farà una serie di biopsie. D'altronde, quella delle terapie anti Her2+ è una storia di grandi risultati: ci sono pazienti metastatiche che, iniziata la cura oltre vent'anni fa, sono vive e stanno bene".
 
A conferma di come questa innovazione stia rivoluzionando i percorsi di cura, si registrano trend positivi: oggi le pazienti ad alto rischio che accedono ad un percorso neoadiuvante sono il 54% del totale delle donne con tumore Her2+ in fase precoce, percentuale che aumenta alla quasi totalità (85%) se rapportata alla sotto-popolazione ad alto rischio, per la quale la combinazione è specificamente indicata. A livello macroregionale, in Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Marche, si registra si registra una percentuale in linea con la media nazionale (51% su 54%), ma "ulteriormente migliorabile", alla luce dei benefici clinici che si possono ottenere: quasi il 60% delle pazienti che beneficia di questa opportunità ha una risposta patologica completa.
 
Diversa invece la situazione rispetto all'opportunità della formulazione sottocutanea, con percorsi che possono ancora essere ottimizzati, per cogliere a pieno tutti i vantaggi che questa opzione offre, permettendo una reale e proficua evoluzione del Sistema, solo se auspicata da tutti. "Le recenti innovazioni nel trattamento del carcinoma mammario Her2+ dimostrano come l'oncologia di precisione e l'ottimizzazione delle risorse possano migliorare gli esiti clinici e la qualità della vita delle pazienti- commenta Fabio Puglisi, direttore della Struttura operativa complessa di Oncologia medica e Prevenzione oncologica del Centro di riferimento oncologico di Aviano (Pordenone)- le terapie neoadiuvanti anti-Her2, con trastuzumab e pertuzumab, migliorano significativamente i tassi di risposta patologica completa e la sopravvivenza a lungo termine, permettendo strategie terapeutiche personalizzate. Parallelamente, la somministrazione sottocutanea di questi farmaci offre vantaggi significativi per le pazienti e il sistema sanitario. Riduce drasticamente i tempi di trattamento e il tempo in ospedale, migliorando il comfort e la qualità della vita delle pazienti. Questo consente di mantenere le attività quotidiane, comprese quelle lavorative, prevenendo la 'financial toxicity'. Inoltre, ottimizza l'uso delle risorse ospedaliere, riducendo i costi e liberando spazio nelle unità di somministrazione dei farmaci oncologici."
 
Un fattore chiave per garantire un accesso ottimale ai nuovi percorsi è rappresentato dal team multidisciplinare o Breast Unit. Secondo Annalisa Curcio, direttrice Unità operativa complessa di Chirurgia senologica di Forlì-Ravenna dell'Ausl della Romagna: "Il percorso della terapia neoadiuvante è l'ambito clinico in cui si evidenzia al massimo l'importanza di un approccio multidisciplinare.
 
La necessità di integrare dati radiologici biologici e oncologici rende il percorso della terapia neoadiuvante imprescindibile dalla valutazione condivisa di radiologo, patologo, chirurgo, oncologo e radioterapista. Il lavoro di gruppo e l'integrazione delle competenze cliniche e scientifiche offre alla paziente riferimenti costanti e garanzie di risposte alle sue necessità cliniche e ai suoi bisogni, come paziente e come donna. La chirurgia è ancora uno step importante, ma l'efficacia delle terapie e l'alto tasso di risposte patologiche complete ottenute grazie a questi nuovi percorsi, configurano, per il futuro, la possibilità di interventi sempre più conservativi fino alla auspicabile omissione della chirurgia".
 
Spiega Alfredo Santinelli, direttore dell'Unità operativa complessa di Anatomia Patologica dell'Ast Pesaro-Urbino Regione Marche: "Il team multidisciplinare è stato un passaggio fondamentale per l'oncologia contemporanea e il ruolo del patologo è alla base di tutto il lavoro, perché sulla sua diagnosi si calibra e organizza il lavoro degli altri componenti del team, oncologo e chirurgo in primis. Nel tumore Her2+ il peso del patologo è andato aumentando, perché il suo referto è imprescindibile per le terapie mirate o target. Il patologo stabilisce i target, tipicamente proteine e mutazioni di geni, e l'oncologo stabilisce come colpirli. Il patologo entra in gioco prima e dopo la chirurgia, perché fornisce una carta d'identità quanto più precisa possibile del tessuto neoplastico agobioptico prelevato dal radiologo, prima, e della neoplasia asportata dal chirurgo, dopo. E adesso, con la terapia neoadiuvante, le possibilità di intervento si perfezionano ancora di più".
 
Il tumore al seno è la neoplasia più diffusa tra le donne e, con quasi 56.000 nuovi casi ogni anno, si conferma il tumore più diagnosticato nel 2023 in Italia. A livello mondiale, le statistiche sono altrettanto significative: ogni 20 secondi si registra una nuova diagnosi (per un totale di 1,67 milioni di nuovi casi) e ogni 5 minuti muoiono di carcinoma mammario più di tre donne, per oltre 500.000 decessi annui. Circa il 20% delle pazienti presenta un tumore al seno Her2+, una forma particolarmente aggressiva perché maggiormente in grado di recidivare e diffondersi in altri organi: nella maggioranza dei casi riesce ad essere diagnosticata quando il tumore è in stadio iniziale, per un totale di 8.200 donne con tumore al seno Her2+ in fase precoce in Italia.
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di Rossella Gemma

“Sono molti anni che si parla di robotica nella chirurgia ginecologica e urologica ma, al momento, solo il 2 per cento dei centri di chirurgia vertebrale impiega piattaforme robotizzate. L’Italia è leader europeo per competenze e sistemi installati in quest’ambito all’avanguardia, già sviluppato negli Stati Uniti e destinato a crescere esponenzialmente anche in Europa – spiega il Professor Salvatore Massimo Cardali, Direttore dell'Unità Operativa di Neurochirurgia del Papardo di Messina che ha già superato i 100 interventi con Mazor™, il sistema a guida robotizzata specializzato nella chirurgia vertebrale prodotto da Medtronic, azienda leader mondiale delle tecnologie medicali.
 
“Il primo, grande vantaggio per il chirurgo è raggiungere un’ideale corrispondenza tra pianificazione ed esecuzione. Con il sistema Mazor™, infatti, abbiamo un dispositivo che ci permette non solo di pianificare in maniera approfondita l’intervento, ma anche di realizzare con grande precisione quanto pianificato”.
 
L’avanzato software di Mazor™ consente, infatti, di mappare con esattezza l’anatomia del paziente: un vantaggio determinante sia in fase pre-operatoria – perché permette di simulare tutti gli stadi dell’intervento fino a trovare la posizione e l’angolatura migliori per le viti da impiantare nella colonna – sia in sala operatoria, dato che consente di monitorare in tempo reale che ogni azione vada esattamente come programmata. “È sempre il chirurgo a pianificare, guidare e decidere ogni azione – aggiunge il Professor Cardali - ma il braccio robotico garantisce una precisione senza precedenti, difficile da eguagliare a mano libera”.  
 
Con una accuratezza delle viti impiantate che tocca il 100%, la precisione di Mazor™ è, perciò, particolarmente indicata per la chirurgia vertebrale data la delicatezza del sito operatorio e la variabilità delle anatomie individuali, aprendo nuove possibilità di cura per una condizione patologica diffusa e debilitante.
 
Il dolore alla schiena continuerà, infatti, a crescere con l’invecchiamento della popolazione e la diffusione di stili di lavoro sempre più sedentari. Attualmente, le patologie degenerative della colonna vertebrale colpiscono più di 5mila persone ogni 100mila abitanti in Europa – oltre 51 milioni di persone - e un numero equivalente negli Stati Uniti. L'intervento di ‘fusione spinale’ è considerato il gold-standard nel trattamento delle patologie degenerative lombari lì dove le terapie conservative non abbiano avuto effetto, e consiste nella connessione permanente di due vertebre attraverso viti e supporti per restituire la stabilità primaria alla colonna.
 
L’impiego del braccio robotico e del suo software di pianificazione aumentano significativamente la sicurezza e l’efficacia nel posizionamento delle viti riducendo, di conseguenza, il rischio di incorrere in complicanze associate all’intervento tradizionale” sottolinea il Professore.  Tre le diverse patologie che richiedono la stabilizzazione della colonna vertebrale, le più frequenti sono: ernia del disco, stenosi del canale, spondilolistesi, scoliosi e fratture vertebrali.
 
Grazie all’impiego di tecnologie all’avanguardia come Mazor™ siamo divenuti uno dei centri di riferimento in Italia – conclude il Professor Salvatore Massimo Cardali -.  Un risultato particolarmente gratificante per Messina e la Sicilia, dato che il nostro Paese parte da un livello di qualità nella chirurgica vertebrale già molto alto e diffuso nei territori. Ancora troppo spesso, i cittadini della Sicilia danno per scontato di doversi spostare quando, in realtà, possono ricevere le cure più appropriate vicino a casa”.
Tra i vantaggi offerti dall’impiego di Mazor™ per i pazienti, si contano, infine, anche una minore esposizione alle radiazioni, una minore perdita di sangue, incisioni più piccole e un tempo di recupero e convalescenza più breve. “Abbiamo ridotto la degenza media da 5,5 a 3,8 giorni, il che ci ha permesso di quadruplicare il numero di persone che possiamo curare all’anno”.
In linea con la nostra Missione di alleviare il dolore, ridare la salute e allungare la vita, ci impegnamo a rendere disponibili strumenti e tecnologie avanzate. Mazor™ segna una nuova tappa del nostro percorso per ‘Engineering the Extraordinary’ - aggiunge Leonardo Noli, Business Unit Director di Medtronic Cranial & Spinal Technologies. - Il nuovo sistema a guida robotizzata costituisce un chiaro esempio di come la tecnologia migliori la qualità di vita del paziente perché offre al medico possibilità di cura interamente nuove, diventando un catalizzatore di progresso sociale e sanitario”.
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di Rossella Gemma

Il 20% degli italiani soffre di almeno un disturbo mentale: sono mezzo milione gli individui che presentano schizofrenia e disturbi bipolari e 3 milioni le persone nel nostro Paese che sono affetti da depressione, una malattia che nella sua forma più grave, definita depressione maggiore, ha un impatto estremamente significativo sulla qualità della vita ed è considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità al primo posto come onere sociale tra tutte le patologie, prima ancora delle malattie cardiovascolari. Sono questi alcuni degli aspetti esplorati all’interno dello Spoke 5 di MNESYS dedicato a “Umore e Psicosi che concentra la propria ricerca sulle malattie psicotiche e affettive, patologie che si stanno svelando sempre più capaci di colpire l’individuo non solo dal punto di vista mentale, ma anche fisico. “La depressione non va considerata unicamente una patologia mentale- sottolineano Luigi Grassi, ordinario di Psichiatria presso l’Università di Ferrara e coordinatore dello Spoke 5 e Alessio Maria Monteleone dell’Università Vanvitelli di Napoli e co-principal investigator - ma un disturbo che coinvolge molti organi e apparati, che determina un incremento degli ormoni dello stress e una riduzione dell’attività immunitaria attraverso molti meccanismi biologici, inclusi fenomeni infiammatori a livello cerebrale. Per questo è dimostrato, nelle persone con patologie mentali severe, un aumento del rischio di sviluppare malattie fisiche, incluse quelle oncologiche. La mortalità per cancro in persone affette da schizofrenia, disturbi bipolari o depressione grave è più elevata rispetto alla popolazione generaleLo abbiamo confermato - puntualizza Grassi - sia in uno studio condotto su oltre 12.000 persone con schizofrenia o disturbo bipolare siain un altro in via di pubblicazione, Major depression and mortality from cancer: a 10-year Italian study, su oltre 13.000 persone con depressione maggiore, seguite in 10 anni dai dipartimenti di salute mentale in Emilia-Romagna e messe a confronto con il tasso di decesso della popolazione regionale. Esaminando la mortalità causata dal cancro, questa è risultata dell'86% più alta nei pazienti affetti da depressione grave rispetto allapopolazione della regione”. 

Fondamentale è quindi personalizzare al massimo il rischio di ammalarsi di un disturbo psichico e il tipo di intervento possibile tanto a livello farmacologico quanto psicosociale. In quest’ottica è di primaria importanza l’identificazione di variabili biologiche e genetiche che possano incidere sulla neuroinfiammazione e di conseguenza favorire l’insorgenza delle malattie psichiche e fisiche, ma anche comprendere se caratteristiche che variano da paziente a paziente possano inficiare l’efficacia della terapia prescritta. A tal proposito, i ricercatori dello Spoke 5 sottolineano che uno dei geni che regola la produzione di un enzima chiave, il CYP2C19, coinvolto nel metabolismo di diversi farmaci, compresi gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), la cura attualmente più utilizzata per la depressione maggiore, se carente comporta una alterata attività metabolica e una ridotta efficacia degli SSRI. L’attenzione dello Spoke 5 è rivolta anche alle patologie psicotiche, disturbi che si manifestano soprattutto a partire dalla giovane età, con un picco di prevalenza nella adolescenza, ma il cui esordio spesso non viene colto, se non a distanza di mesi o anni, con un ritardo che influenza negativamente la prognosi e la stessa efficacia dei trattamenti. 

Tali dati confermano come, all’interno del cervello, vi siano alterazioni significative delle connessioni tra aree cerebrali, che incrementano, in persone predisposte geneticamente, il rischio di sviluppare psicosi. “Abbiamo verificato ciò in diversi studi attraverso la risonanza magnetica cerebrale funzionale – affermano Alessandro Bertolino e Giulio Pergola dell’Università di Bari che fanno riferimento ai dati pubblicati nel 2023 dal loro gruppo di ricerca, Changes in patterns of age-related network connectivity are associated with risk for schizophrenia su Proceedings of the National Academy of Sciences -. Proprio durante la delicata fase di maturazione del cervello in età adolescenziale queste alterazioni dei circuiti e delle connessioni di alcune aree dello stesso cervello si correlano con il rischio genetico di sviluppare la malattia schizofrenica”. Inoltre, in un ulteriore studio, Dopamine signaling enriched striatal gene set predicts striatal dopamine synthesis and physiological activity in vivo, pubblicato su Nature Communications nel 2024, lo stesso gruppo di ricerca ha riportato come parte delle variazioni genetiche legate alla neurotrasmissione della dopamina manifesti un effetto nel funzionamento e nella neurochimica di particolari aree cerebrali studiate in vivo nell’uomo.

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di Rossella Gemma

Un incremento del 25% del tasso di allattamento esclusivo a 3 mesi dal parto grazie al tele-supporto ai genitori rispetto ad un’assistenza standard e può avere un effetto positivo anche fino ai 6 mesi è il dato rilevato da uno studio recente. Lo sviluppo delle telecomunicazioni negli ultimi 150 anni è stato impressionante, sia per quanto riguarda gli strumenti (“devices”), che per il tipo di connettività e, durante la pandemia Covid-19, l’utilizzo della telemedicina è esploso.

Sulla base di queste esperienze, la Società Italiana di Neonatologia (SIN) ha realizzato e diffuso una Position Statement sul Tele-supporto all’Allattamento, coordinata dal dott. Riccardo Davanzo, Presidente della Commissione Allattamento della Società Italiana di Neonatologia (COMASIN). Nel documento la SIN ha, innanzitutto, evidenziato la grandissima efficacia, in termini di promozione e sostegno all’allattamento, dell’uso di queste nuove tecnologie in campo medico e ne ha identificato e descritto i requisiti, esaminando le relative normative.

La SIN ha condotto una ricerca qualitativa secondo la metodologia del Focus Group, su un campione di infermieri e medici delle Neonatologie italiane, mostrando come, pur risultando più difficile la comunicazione fra operatori sanitari e mamme, il tele-supporto all’allattamento è apprezzato dalle famiglie, consentendo anche un’auspicata partecipazione dei padri in misura maggiore, rispetto alle usuali consulenze in presenza. Il personale sanitario durante la pandemia ha svolto questa attività negli ospedali ancora una volta con impegno e dedizione personali, potendo, raramente, contare su un’adeguata organizzazione aziendale, che fornisse i devices necessari e una specifica formazione.

Nonostante nel 2022 siano stati emanati dei decreti legislativi sulla telemedicina e il PNRR stesso riconosca alla telemedicina un ruolo centrale nella riorganizzazione dell’assistenza sanitaria, le esperienze di tele-supporto all’allattamento, una volta passata l’emergenza pandemica, in assenza di un progetto preciso, si sono, purtroppo, fermate in gran parte delle strutture sanitarie, disconoscendo il grande valore che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) attribuisce agli interventi preventivi nell’area della salute materno-infantile.

“Uno studio scozzese, pubblicato pochi giorni fa, ha confermato un’ennesima volta come l’allattamento al seno, migliorando lo stato di salute della popolazione pediatrica e riducendo l’accesso alle cure mediche, di fatto abbassa i costi sanitari”, ha commentato il Dott. Davanzo.

La SIN sottolinea come in questa situazione il semplice contatto telefonico con l’utente resti la prima modalità di supporto all’allattamento, che può consentire un triage per la programmazione di una videochiamata di supporto con operatori sanitari adeguatamente formati, quando non sia possibile avere una consulenza in presenza o comunque in tempi brevi. Le visite di supporto all’allattamento in presenza dovrebbero rappresentare l’effetto di una efficiente selezione compiuta via smartphone o computer e dovrebbero essere organizzate dalle Aziende Sanitarie in integrazione fra ospedale e strutture territoriali”, conclude Luigi Orfeo, Presidente SIN.

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di Rossella Gemma

Con 34mila nuovi decessi all'anno, il carcinoma polmonare rappresenta la più frequente causa di morte oncologica in Italia. Per quanti sono colpiti da questa neoplasia ci sono, però, buone notizie. Negli ultimi anni, infatti, si sono registrati importanti progressi nella chirurgia e nelle terapie farmacologiche, che hanno permesso, anche grazie alla prevenzione primaria, in primis la lotta al tabagismo, di aumentare significativamente le aspettative di sopravvivenza dei pazienti.

Il successo dei trattamenti è però legato alla precocità della diagnosi. Ed è per questo motivo che l'implementazione di un programma strutturato di screening polmonare deve rappresentare una priorità nell'ambito degli interventi e delle politiche di sanità pubblica.

Per contribuire a un dibattito aperto sul tema, C.R.E.A. Sanità ha sviluppato, con il contributo di Roche Italia, un innovativo modello che, per la prima volta, integrando e aggiornando uno studio precedente, analizza anche l'impatto di farmaci innovativi come l'immunoterapia, di recente introduzione, e offre una valutazione economica dello screening del cancro al polmone, basata su evidenze di costo-efficacia, costo-utilità, impatto finanziario (budget impact).

I risultati del modello stimano che l'attuazione di un programma di screening nazionale nei pazienti ad alto rischio, consentirebbe, grazie a una diagnosi tempestiva, un incremento della sopravvivenza dei pazienti screenati di 7,63 anni rispetto ai non screenati, a fronte di una riduzione dei costi sanitari pari 2,3 miliardi di euro, in un orizzonte temporale di 30 anni.
 
In termini finanziari, va previsto un investimento iniziale nel primo anno, legato anche all'organizzazione dello screening, pari a circa 80 milioni di euro, che sarebbe però più che compensato dai risparmi pari a circa 180 milioni di euro già al primo anno.

La presentazione dei risultati, avvenuta alla Camera dei Deputati, è stata l'occasione per dare vita a un dibattito costruttivo che ha coinvolto esperti clinici, economisti e istituzioni, con l'obiettivo di stimolare un impegno condiviso per ampliare l'accesso allo screening al polmone nel nostro Paese.

"Il modello elaborato- ha spiegato Federico Spandonaro, professore aggregato Università degli Studi di Roma 'Tor Vergata' e presidente del Comitato Scientifico C.R.E.A. Sanità- dimostra che la promozione di uno screening della popolazione ad alto rischio per il carcinoma polmonare è una politica di sanità pubblica efficace ed efficiente che, purché adeguatamente promossa e incentivata, risulta anche sostenibile da un punto di vista finanziario".

"Parallelamente alla lotta al tabagismo- ha dichiarato la professoressa Giulia Veronesi, direttrice del Programma di Chirurgia Robotica Toracica presso l'Irccs ospedale San Raffaele- è prioritario favorire l'accesso allo screening ai soggetti ad alto rischio, cioè fumatori o ex forti fumatori sopra i 50 anni. Le società scientifiche internazionali e la Commissione europea stanno già andando in questa direzione e raccomandano, per questi soggetti, regolari TAC al torace a basso dosaggio di radiazioni intensità, per un monitoraggio adeguato".

"Quando il tumore al polmone viene diagnosticato e trattato in fase precoce con chirurgia e farmaci- ha proseguito Veronesi- si possono raggiungere tassi di sopravvivenza a 5 anni intorno all'80%. Per questo, investire in un programma strutturato di screening polmonare è oggi più cruciale che mai, perché consente un guadagno di vita di oltre 7 anni a fronte di un risparmio economico per il Sistema sanitario nazionale".

"Mentre è ormai prassi consolidata fornire evidenze anche in termini di costo-efficacia delle terapie- ha commentato il presidente Aiom, Francesco Perrone- ci sono ancora pochi dati e analisi di questo tipo sullo screening. Il modello presentato oggi sul polmone è, per questo, molto interessante e ha il potenziale per essere replicato e applicato ad altri screening oncologici, fornendo uno strumento di grande valore per guidare le politiche sanitarie".

L'onorevole Ugo Cappellacci, presidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, ha ricordato che "gli screening consentono di giocare d'anticipo sulla malattia e sulle conseguenze. Per questo è fondamentale recuperare i ritardi accumulati durante la pandemia. Una delle misure su cui Governo e Parlamento stanno lavorando è lo smaltimento delle liste d'attesa, con un provvedimento importante a favore dei diritti dei cittadini".

"La missione- ha poi precisato Cappellacci- è, inoltre, quella di ampliare l'offerta di screening ad ambiti prioritari come quello del tumore al polmone, grazie all'azione comune avviata a livello europeo e che vede anche l'Italia protagonista. In Commissione abbiamo svolto una serie di audizioni sul Piano Europeo Contro il Cancro da cui, una volta di più, emerge che impiegare nuove risorse a favore della salute non va considerato una spesa, ma il migliore investimento e la migliore riforma che si possa attuare".

"Grazie a significativi investimenti in ricerca- le parole di Federico Pantellini, Medical Lead Roche Italia- mettiamo a disposizione dei pazienti affetti da tumore al polmone farmaci immunoterapici e a bersaglio molecolare in grado di agire fin dalle fasi precoci della malattia, dove l'obiettivo può essere quello della cura. Per poter assicurare i benefici associati a questi trattamenti, è prioritario effettuare una diagnosi quanto più precoce e lo screening è uno strumento chiave".
"In questa prospettiva- ha concluso Pantellini- rinnoviamo la nostra volontà ad essere un partner di valore per il Sistema, collaborando con tutti gli attori in campo affinché l'accesso a questa strategia di salute pubblica così preziosa possa essere garantito. Il dibattito di oggi si inserisce nell'ambito del programma LungLive, promosso da Roche per ridefinire insieme il tumore al polmone, puntando su prevenzione primaria, screening e innovazione terapeutica fin dalle fasi precoci di malattia".

Il modello presentato fornisce uno strumento prezioso, se si tiene conto del fatto che, tra tutti i tumori, quello al polmone è quello a maggiore impatto per la società: a livello mondiale l'onere raggiunge i 4.000 miliardi di dollari, mentre in Italia è stato stimato un costo annuo di 2,5 miliardi di euro. E in un contesto di risorse limitate per le politiche pubbliche, l'aspetto economico non può essere trascurato.
Assumendo di effettuare lo screening con frequenza biennale sulla popolazione ad alto rischio (rappresentata dai soggetti di età compresa fra 50 e 79 anni con forte esposizione al fumo- più di 30 pack-year), considerando un orizzonte temporale di 30 anni e adottando, infine, un tasso di risposta del 30%, il modello predisposto stima che sarà necessario effettuare in media circa 460.000 LD-CTs annue (circa 360.000 a regime se non si modificheranno significativamente le abitudini di fumo).
 
Il lavoro di ricerca condotto si è concentrato sulla modellizzazione delle diverse possibili modalità alternative di effettuazione dello screening e permette di modificare la popolazione invitata e aderente, la frequenza di ripetizione dello screening e le opzioni di gestione dei casi in cui lo screening effettuato non permetta una diagnosi certa. In aggiunta, una particolare attenzione è stata dedicata alla descrizione dei percorsi terapeutici a oggi disponibili, prevedendo la possibilità di un loro aggiornamento nel tempo.
 
Il lavoro è stato implementato con il supporto di un board scientifico composto da Giulia Veronesi, professoressa presso I.R.C.C.S. ospedale San Raffaele, Ferrara R., ricercatore, Dipartimento di Oncologia Medica, Università Vita-Salute San Raffaele, Graziano P., Direttore Unità di Patologia, Istituto di Ricerca 'Casa Sollievo della Sofferenza'.
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di Rossella Gemma

Al chirurgo-robot oggi basta un solo ‘accesso’ per operare prostata e rene: con il nuovo sistema robotico ‘monobraccio’ non servono più le classiche quattro incisioni nella parete addominale per inserire i bracci robotici operatori, ma ne è sufficiente una sola, della grandezza massimo di una moneta, così il recupero post-operatorio si accorcia al minimo indispensabile e in futuro i pazienti potranno tornare a casa dopo poche ore dall’intervento. L’innovativa tecnologia è da oggi disponibile all’IRCCS di Candiolo (TO) dove Francesco Porpiglia, Professore ordinario di Urologia nel Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino sede di Orbassano coadiuvato dall’equipe dell’Urologia dell’IRCCS Candiolo, ha appena operato i primi due pazienti con il nuovo metodo che, nel prossimo futuro, consentirà di rendere l’intervento di rimozione di un tumore alla prostata una procedura rapida, da eseguire con un ricovero di 24-48 ore: “Grazie a questa eccellenza dei robot-chirurgici già oggi negli Stati Uniti oltre il 90% dei pazienti rientra a casa la sera stessa dell’operazione, il nostro obiettivo sarà la dimissione dopo aver trascorso al massimo una o due notti in ospedale”, dice Francesco Porpiglia.

Il nuovo robot Da Vinci SP, acquisito con il contributo della Fondazione Piemontese per la ricerca sul Cancro ONLUS, rappresenta un sistema di ultimissima generazione con un unico braccio robotico che offre la possibilità di eseguire interventi chirurgici complessi attraverso un unico accesso, sfruttando dove possibile orifizi naturali per raggiungere gli organi senza ledere la parete muscolare. Il braccio è equipaggiato con tre strumenti chirurgici evoluti che consentono una mobilità molto maggiore rispetto alla mano umana e con un endoscopio super-flessibile e orientabile per la miglior visione in alta definizione del campo operatorio, tutti controllati direttamente dal chirurgo. “Lo strumento, una volta inserito, consente una grande capacità di manovra in spazi anatomici molto ristretti, anche se occorre abituarsi a operare in maniera differente rispetto al passato – spiega Porpiglia – In questo modo l’intervento diventa ultra-preciso, ma anche mininvasivo grazie al singolo accesso di circa 3 cm. Per il paziente significa ridurre il trauma e l’infiammazione locali, diminuendo notevolmente il dolore post-operatorio e tagliando i tempi del recupero, con benefici che sono anche estetici e psicologici”. Lo strumento è già utilizzato negli Stati Uniti, dove è stato introdotto nel 2018 e il suo impiego cresce del 38% annuo per ben 9000 interventi nel solo 2023; da un paio di mesi ha ricevuto il marchio CE ed è appena stato introdotto in Germania e Regno Unito.

In Italia, Candiolo è il quarto centro, unico in Piemonte, a dotarsi dell’innovativa tecnologia, la più avanzata piattaforma robotica a oggi disponibile. “Non si tratta di uno strumento adatto a tutti i pazienti, – aggiunge Porpiglia – Le prime indicazioni per le quali trova una sua destinazione naturale si hanno proprio in chirurgia urologica, che negli USA costituisce il 73% degli interventi, prevalentemente nel trattamento del tumore del rene e della prostata. In ambo i casi il sistema consente di passare al di fuori della cavità addominale con una minore invasività ma senza ridurre la qualità chirurgica e diminuendo del 30% i tempi di degenza grazie a una rapida ripresa e una significativa riduzione del dolore post-operatorio. Dei circa 500 interventi di chirurgia robotica programmati a Candiolo nel 2024, oltre un centinaio potranno essere appannaggio del robot ‘monobraccio’. L’obiettivo dell’IRCCS di Candiolo, grazie all’adozione di questa innovativa tecnologia, è quello di poter offrire a ciascun paziente una chirurgia sempre più pecisa e personalizzata, senza compromettere l’efficacia oncologica e massimizzando i risultati funzionali e di rapida ripresa della vita quotidiana del paziente grazie al minimo impatto dell’intervento”.

 

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di Rossella Gemma

Al chirurgo-robot oggi basta un solo ‘accesso’ per operare prostata e rene: con il nuovo sistema robotico ‘monobraccio’ non servono più le classiche quattro incisioni nella parete addominale per inserire i bracci robotici operatori, ma ne è sufficiente una sola, della grandezza massimo di una moneta, così il recupero post-operatorio si accorcia al minimo indispensabile e in futuro i pazienti potranno tornare a casa dopo poche ore dall’intervento. L’innovativa tecnologia è da oggi disponibile all’IRCCS di Candiolo (TO) dove Francesco Porpiglia, Professore ordinario di Urologia nel Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino sede di Orbassano coadiuvato dall’equipe dell’Urologia dell’IRCCS Candiolo, ha appena operato i primi due pazienti con il nuovo metodo che, nel prossimo futuro, consentirà di rendere l’intervento di rimozione di un tumore alla prostata una procedura rapida, da eseguire con un ricovero di 24-48 ore: “Grazie a questa eccellenza dei robot-chirurgici già oggi negli Stati Uniti oltre il 90% dei pazienti rientra a casa la sera stessa dell’operazione, il nostro obiettivo sarà la dimissione dopo aver trascorso al massimo una o due notti in ospedale”, dice Francesco Porpiglia.

Il nuovo robot Da Vinci SP, acquisito con il contributo della Fondazione Piemontese per la ricerca sul Cancro ONLUS, rappresenta un sistema di ultimissima generazione con un unico braccio robotico che offre la possibilità di eseguire interventi chirurgici complessi attraverso un unico accesso, sfruttando dove possibile orifizi naturali per raggiungere gli organi senza ledere la parete muscolare. Il braccio è equipaggiato con tre strumenti chirurgici evoluti che consentono una mobilità molto maggiore rispetto alla mano umana e con un endoscopio super-flessibile e orientabile per la miglior visione in alta definizione del campo operatorio, tutti controllati direttamente dal chirurgo. “Lo strumento, una volta inserito, consente una grande capacità di manovra in spazi anatomici molto ristretti, anche se occorre abituarsi a operare in maniera differente rispetto al passato – spiega Porpiglia – In questo modo l’intervento diventa ultra-preciso, ma anche mininvasivo grazie al singolo accesso di circa 3 cm. Per il paziente significa ridurre il trauma e l’infiammazione locali, diminuendo notevolmente il dolore post-operatorio e tagliando i tempi del recupero, con benefici che sono anche estetici e psicologici”. Lo strumento è già utilizzato negli Stati Uniti, dove è stato introdotto nel 2018 e il suo impiego cresce del 38% annuo per ben 9000 interventi nel solo 2023; da un paio di mesi ha ricevuto il marchio CE ed è appena stato introdotto in Germania e Regno Unito.

In Italia, Candiolo è il quarto centro, unico in Piemonte, a dotarsi dell’innovativa tecnologia, la più avanzata piattaforma robotica a oggi disponibile. “Non si tratta di uno strumento adatto a tutti i pazienti, – aggiunge Porpiglia – Le prime indicazioni per le quali trova una sua destinazione naturale si hanno proprio in chirurgia urologica, che negli USA costituisce il 73% degli interventi, prevalentemente nel trattamento del tumore del rene e della prostata. In ambo i casi il sistema consente di passare al di fuori della cavità addominale con una minore invasività ma senza ridurre la qualità chirurgica e diminuendo del 30% i tempi di degenza grazie a una rapida ripresa e una significativa riduzione del dolore post-operatorio. Dei circa 500 interventi di chirurgia robotica programmati a Candiolo nel 2024, oltre un centinaio potranno essere appannaggio del robot ‘monobraccio’. L’obiettivo dell’IRCCS di Candiolo, grazie all’adozione di questa innovativa tecnologia, è quello di poter offrire a ciascun paziente una chirurgia sempre più pecisa e personalizzata, senza compromettere l’efficacia oncologica e massimizzando i risultati funzionali e di rapida ripresa della vita quotidiana del paziente grazie al minimo impatto dell’intervento”.

 

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di Rossella Gemma

Cinquantadue somministrazioni invece di 365 è il cambiamento nella gestione del diabete promesso dall’insulina settimanale. La molecola, chiamata Icodec e prodotta da Novo Nordisk, è la prima al mondo ‘a lento rilascio’ e ha ottenuto l’approvazione dell’ente regolatorio europeo EMA per la commercializzazione in Europa basata sui dati di sicurezza ed efficacia del programma di fase 3a ONWARDS.

“L’insulina settimanale è una innovazione attesa da tempo sia per le persone con diabete di tipo 1 e 2, per gli effetti positivi sia dal punto di vista clinico che sociale” sottolinea il Professor Angelo Avogaro Presidente SID “auspichiamo quindi che AIFA dia il suo nulla osta all’approvazione di questa insulina innovativa, che coniuga benefici clinici a sostenibilità ambientale grazie alla diminuzione nel numero di penne utilizzate e quindi all’uso della plastica”. 

“Si tratta di un miglioramento evidente nella gestione della malattia, con ripercussioni positive sia sulla qualità di vita che sull’aderenza al trattamento. La necessità della somministrazione quotidiana, infatti, può essere stressante e influire sulla continuità di trattamento. La nuova insulina basale viene somministrata sottocute, una sola volta alla settimana, e ha mostrato di migliorare il controllo glicemico, rispetto alla versione giornaliera, senza un aumento del rischio di ipoglicemia” continua Avogaro. I vantaggi sono notevoli, come la riduzione del carico di trattamento: meno iniezioni (da 7 a 1 a settimana) possono significare un minor numero di aghi, meno dolore e una maggiore semplicità, migliorando la compliance e la qualità della vita. Miglioramento del controllo glicemico e minore rischio di ipoglicemia: le formulazioni settimanali rilasciano l'insulina in modo più costante, riducendo i picchi e i cali di zucchero nel sangue e il rischio di ipoglicemia grave. Il migliore controllo glicemico a lungo termine può ridurre il rischio di complicazioni diabetiche come malattie cardiache, ictus, nefropatia e retinopatia.

“Mettere la persona con diabete al centro significa prendere in considerazione anche i suoi bisogni sociali e di vita” prosegue il Professor Avogaro “Meno iniezioni offrono più flessibilità per la routine quotidiana, viaggi e attività sociali. E ridurre le iniezioni frequenti può diminuire lo stress, l'ansia e la depressione associati al diabete con un impatto emotivo inferiore oltre ad un aumento del senso di controllo e di autoefficacia. Una sola iniezione settimanale può aumentare l’aderenza che è un elemento importante per migliorare gli esiti di salute e ridurre sia i ricoveri ospedalieri che i costi che ne derivano”.

La somministrazione settimanale offre un vantaggio anche per i pazienti più anziani, con più patologie in poli trattamento farmacologico e per gli operatori sanitari che si occupano delle persone con diabete ricoverati o residenti in strutture di lunga degenza. 

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di Rossella Gemma

La chiave della relazione tra dieta e rischio di cancro potrebbe essere in alcuni cambiamenti nel metabolismo del glucosio in grado di disattivare un gene protettivo dai tumori, il BRCA2. La scoperta, fatta da un team di ricercatori di Singapore e del Regno Unito e pubblicata sulla rivista CeIl, spiegherebbe perché diete squilibrate e malattie come il diabete aumentano il rischio oncologico. “Nell’articolo” spiega il Prof. Angelo Avogaro, Presidente SID “i ricercatori  hanno identificato il meccanismo attraverso il quale gli elevati livelli di glucosio, (iperglicemia), potrebbero aiutare la crescita del cancro. L’iperglicemia disabiliterebbe temporaneamente un gene che ci protegge dai tumori chiamato BRCA2. Quando questo gene funziona poco o male aumenta la suscettibilità non solo al cancro della mammella ma anche ad altri tumori”. Il team di ricercatori ha prima esaminato le persone che avevano ereditato una copia difettosa di BRCA2 e hanno scoperto che le cellule di queste persone erano più sensibili al metilgliossale (MGO), un composto che viene prodotto in grandi quantità quando nel sangue vi è iperglicemia. Proprio il metabolismo del glucosio è responsabile di oltre il 90% del MGO presente nelle cellule: livelli elevati possono portare alla formazione di radicali liberi, composti dannosi che danneggiano il DNA e le proteine. In condizioni come il diabete. Dove i livelli di MGO sono elevati a causa dell’alto livello di zucchero nel sangue, questi composti dannosi contribuiscono alle complicanze della malattia.

I ricercatori hanno scoperto che il MGO può disattivare temporaneamente le funzioni antitumorali, provocando mutazioni legate allo sviluppo del cancro. Questo effetto potrebbe essere osservato nelle cellule non cancerose e nei campioni di tessuto derivati dai pazienti, in alcuni casi di cancro al seno umano e in modelli murini di cancro al pancreas. “Le cellule esposte ripetutamente al MGO possono continuare ad accumulare mutazioni che causano il cancro ogni volta che la produzione della proteina BRCA2 esistente fallisce” sottolinea il Professor Avogaro “Ciò suggerisce che i cambiamenti nel metabolismo del glucosio possono interrompere la funzione antitumorale, e positiva, del BRCA2, contribuendo allo sviluppo e alla progressione del cancro”.

Iniziato con l’intento di comprendere i fattori che aumentano il rischio di cancro nelle famiglie a rischio, lo studio ha rivelato il ruolo del processo di glicolisi che trasforma il glucosio in energia. In sintesi, i cambiamenti nei livelli di glucosio possono inibire le funzioni protettive e riparatrici del gene BRCA2a causa dei MGO e contribuire allo sviluppo della malattia. La buona notizia è che in condizioni favorevoli il gene può tornare a svolgere le sue funzioni di sentinella. La notizia positiva è che il metilgliossale è ricavabile mediante un semplice esame del sangue (HDA1C) e che livelli adeguati della sostanza possono essere controllati con una dieta corretta e con farmaci.

Ovviamente per confermare questi risultati saranno necessari studi ulteriori ma il merito dei ricercatori è aver spiegato il meccanismo per cui una dieta scorretta o un diabete non adeguatamente controllato possono aumentare la suscettibilità oncologica.

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di Rossella Gemma

Quasi un cittadino su tre nutre ancora dubbi sul fatto che i farmaci equivalenti abbiano la stessa efficacia di quelli cosiddetti “di marca” e uno su cinque dichiara che il medico indica sul ricettario solo quest’ultima tipologia. Il 47% dei cittadini sarebbe predisposto ad acquistare l’equivalente, mentre resiste un 19% che prediligerebbe comunque il brand.

Sono alcuni dei dati che emergono dalla indagine esclusiva realizzata da SWG, tra aprile e maggio, su un campione di 2500 cittadini maggiorenni rappresentativi della popolazione italiana. La stessa è stata presentata stamattina presso il Ministero della Salute, nel corso dell’evento “Farmaci equivalenti: conoscere per scegliere” promosso da Cittadinanzattiva, nell’ambito della campagna Ioequivalgo, con il contributo non condizionato di Egualia. 

Oltre alla indagine SWG, sono stati presentati i dati di una ricerca della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa che per la prima volta ha scelto di introdurre tra gli indicatori di valutazione delle performance regionali ed aziendali anche il ricorso agli equivalenti e i dati sul differenziale di prezzo versato di tasca propria dai cittadini per ritirare in farmacia il brand invece degli equivalenti. Nel 2022 la spesa a carico dei cittadini, comprendente la quota della compartecipazione (ticket regionali e differenziale), l’acquisto privato dei medicinali di classe A e la spesa dei farmaci di classe C, è stata pari a 9,9 miliardi, con un aumento del 7,6% rispetto al 2021. Il tutto con una costante: la spesa per la compartecipazione risulta generalmente più elevata nelle Regioni a basso reddito.

La campagna Ioequivalgo avviata da Cittadinanzattiva dal 2016 ha raggiunto, nelle cinque edizioni che si sono susseguite, tutte le regioni d’Italia con i suoi villaggi allestiti nelle piazze e negli atenei dove le persone hanno potuto ricevere informazioni attraverso il colloquio diretto con professionisti della salute, attraverso i leaflet e il sito web http://www.ioequivalgo.it e soprattutto attraverso l’app, strumento prezioso e di facile utilizzo, costantemente aggiornato dal partner tecnico Farmadati. L’edizione attualmente in corso della campagna ha indagato le ragioni per cui al Sud, ed in particolare nelle regioni pilota Campania e Sicilia, il ricorso ai farmaci equivalenti sia così ridotto, a fronte di un reddito pro capite mediamente più basso rispetto alle Regioni del Nord, dove il consumo degli equivalenti è ormai pratica consolidata.

Come emerge infatti dall’ultimo Report realizzato dal Centro Studi di Egualia, nel 2023 i cittadini hanno versato di tasca propria 1.029 milioni di euro di differenziale di prezzo per ritirare il brand off patent - più costoso - invece che il generico-equivalente - a minor costo - interamente rimborsato dal SSN. Il ricorso alle cure equivalenti continua però ad essere privilegiato al Nord (rappresenta il 39,8% delle confezioni vendute) rispetto al Centro (29%) e al Sud (23,7%), a fronte di una media Italia del 32%. L’incidenza maggiore di consumo è nella P.A. di Trento (44,7%), in Friuli Venezia Giulia (41,9%), in Piemonte (40%). In coda per consumi di equivalenti sono Sicilia (22,7%), Campania (21,9%), Calabria (21,7%). Cittadinanzattiva ha presentato alcune proposte concrete, in vari ambiti

Sul piano della comunicazione e informazione occorre:

  1. avviare indagini qualitative sulle preferenze degli utenti rispetto al consumo dei farmaci, analizzando i fattori associati ad eventuali pregiudizi sul farmaco equivalente, al fine di pianificare interventi specifici e personalizzati anche con il supporto delle organizzazioni civiche e delle associazioni di pazienti;
  2. realizzare una campagna di informazione istituzionale rivolta ai cittadini e agli operatori sanitari (medici, farmacisti, infermieri), che punti sui diritti e sulla responsabilità di ognuno;
    portare la formazione nelle scuole, creando un’integrazione tra sistema educativo e sistema sanitario; promuovere e favorire le attività ed il contributo che le associazioni di pazienti e le organizzazioni civiche possono dare attraverso momenti di informazione di prossimità alla cittadinanza.

Sotto il profilo della formazione del personale:

  1. sviluppare piani formativi dedicati al tema dei farmaci equivalenti all’interno dei corsi di laurea in Farmacia, Medicina e chirurgia e infermieristica;
  2. potenziare i corsi di formazione ECM sul valore dei farmaci equivalenti e gestione ottimale di questa risorsa come valore clinico ed economico per il cittadino e il SSN.

Dal punto di vista della gestione tecnica della prescrizione:

  1. estendere l’utilizzo della ricetta elettronica ad ogni medico convenzionato con il SSN ed operante nei vari setting assistenziali pubblici e privati convenzionati;
  2. rendere sistematico il monitoraggio sulle prescrizioni da parte dei professionisti sanitari e sull’appropriatezza nell’uso delle clausole di non sostituibilità, avviando un confronto a livello di Regioni sull’eventuale uso eccessivo o inappropriato della “non sostituibilità”
  3. promuovere un Tavolo Tecnico a livello regionale con il coinvolgimento di medici, farmacisti, infermieri, Distretti sanitari, rappresentanti delle società scientifiche e delle organizzazioni civiche e di pazienti al fine di avviare azioni sinergiche per migliorare l’accesso ai farmaci equivalenti sul territorio a partire dai dati di monitoraggio/comportamento cittadini.

Lo studio, presentato da Riccardo Grassi, aggiorna una precedente rilevazione del 2021 analizzando gli atteggiamenti generali verso la salute, il livello di informazione, la fiducia nei players, il rapporto con i farmaci, la conoscenza del farmaco generico/equivalente e i criteri d’acquisto.

Più o meno inalterato l’atteggiamento degli italiani rispetto alle questioni sanitarie: il 56% del campione si dichiara attento alla salute, il 52% fa regolamene esami di routine (61% over 64), la maggioranza dichiara di stare bene (44%) o molto bene (37%) ma tre italiani su cinque e lamentano stanchezza ed affaticamento, e quasi la metà dolori osteo-articolari e insonnia. Piccoli disturbi che hanno affrontato rivolgendosi al medico (31%), allo specialista (16%) al farmacista (10%) e acquistando farmacia da banco (31%).

Il 72% del campione è ben informato anche sui farmaci equivalenti, dichiarando di averne sentito parlare dal farmacista (58%) o dal medico (41%): l’83% del campione sa che l’equivalente contiene lo stesso principio attivo del brand, il 69% che contiene la stessa quantità di farmaco, ma per quasi un quarto della popolazione generici ed equivalenti non sono la stessa cosa. E quasi il 30% degli intervistati continua ad avere dubbi sul fatto che abbiano la stessa efficacia.

Al momento dell’acquisto quasi due italiani su tre (64%) si affidano alle indicazioni del medico, soprattutto tra gli over 64 e i residenti nel Nord-Est, ma c’è una certa fiducia anche nelle indicazioni del farmacista (23%), soprattutto tra i giovani. Focus anche sulle abitudini prescrittive dei medici: il 20% del campione dice che il medico in ricetta indica solo il farmaco di marca; il 36% che indica il principio attivo e il farmaco di marca; solo il 31% riferisce che il medico indica solo il principio attivo lasciando al paziente la scelta tra equivalente e brand. Il 47% del campione si dice comunque orientato ad acquistare un farmaco equivalente, il 34% il farmaco consigliato dal medico o dal farmacista e il 19% il farmaco di marca.