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del dott. Alberto Volponi

La domanda si ripropone con forza ogni volta che si parla dei test di ingresso alle Università italiane. Agli inizi di settembre una moltitudine di giovani hanno affollato aule universitarie, saloni di grandi alberghi, palazzetti dello sport per rispondere a una serie di quiz. Ah, i quiz! Vi ricordate Arbore di Indietro tutta, "si, la vita è tutta un quiz"? Ci risiamo!! Quiz preparati da fantasiosi "parrucconi" ministeriali, li avrebbe definiti Giuseppe Verdi alla stregua di quelli del Conservatorio di Milano che lo bocciarono ai test di ingresso, sulla cui efficacia, nell'evidenziare in particolare le attitudini di un giovane a inoltrarsi in un determinato percorso di studi e abbracciare alla fine una professione, abbiamo sempre nutrito molti dubbi. Dicevamo una moltitudine: solo per i corsi di Medicina il popolo degli aspiranti ha superato i 70mila giovani, negli anni passati sono stati anche oltre 90 mila, a fronte di un'offerta di poco più di 9mila posti, con un rapporto, quindi, di uno a otto. Il numero chiuso è stato introdotto negli anni ottanta per accedere a corsi di laurea a numero programmato di Medicina, più tardi di Odontoiatria, Veterinaria, Architettura nonché per le lauree triennali delle professioni sanitarie (infermieri, ostetriche, fisioterapisti…) ed è nato con la duplice esigenza di migliorare la qualità della formazione nonché di rispondere, in maniera programmata, alle esigenze nazionali di un congruo numero di figure professionali. Fin dall'inizio la contestazione verso queste forme di selezione è stata pesante anche perché  l'espletamento delle prove è ogni anno oggetto di inchieste penali per irregolarità varie, furbate della migliore fantasia dell'italico ingegno, fra cui la sostituzione di persone. Si poteva pensare a uno sbarramento altamente selettivo alla fine di un primo percorso comune di studi, due anni, in Francia sono tre, e dare la possibilità a ognuno di essere più approfonditamente valutato ma la risposta era ed è negativa per ragioni economiche e organizzative: troppo costosa e non praticabile per le carenze strutturali, logistiche e di personale docente delle Università. Le difficoltà, invero, sarebbero state superabili con una revisione dei programmi e degli accessi a tutte le lauree dell'area sanitaria, istituendo un unico canale iniziale al termine del quale si sarebbero diversificati i vari percorsi. In effetti, oggi, il diritto allo studio si riduce a un sub-diritto, un diritto a metà, di intensità variabile e si realizza non in base alle prioritarie esigenze del Paese ma a quelle delle Università. Se poi, come è accaduto per la statale di Milano, dove il numero chiuso è stato introdotto anche per le facoltà umanistiche, e il motivo è l'insufficiente numero di docenti, allora possiamo dire che questo diritto è di fatto azzerato. Ma c'è sempre un Tar (altro che  giudice a Berlino!) che annulla la decisione dell'Università e si entra nel tunnel dell'incertezza assoluta anche perché tali sentenze - non crediamo che ci siano le condizioni - potrebbe avere un effetto domino. Intanto, di numero chiuso in numero chiuso, i laureati in Italia diminuiscono e in Europa siamo splendidi ultimi con il 24,9% mentre la media europea è del 38,5%, e assistiamo inermi a un altro fenomeno: ogni anno emigrano circa 100mila italiani, contro i 30mila degli anni '90, ma ora non è più forza lavoro ma nella grande maggioranza sono laureati che portano all'estero la loro formazione costata anche alle nostre tasche (la Confindustria parla di una perdita annua di 14 miliardi ). A proposito di emigrazione apriamo e chiudiamo subito una parentesi: rispetto ai 100mila italiani che "evadono" ce ne sono altrettanti che ci "invadono", secondo certi professionisti della paura (i due verbi sono del sociologo Ilvo Diamanti). Alla fine il bilancio numerico, solo numerico, valido ai fini statistici-demografici, e lo diciamo con un pizzico di amaro sarcasmo, è pari! Ci sembra, allora, che la risposta alla domanda iniziale sia profondamente deludente nonostante i frequenti richiami all'art.26 della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo del 1948, e agli articoli 3, che sancisce un generale principio di uguaglianza fra i cittadini e, in maniera più specifica, agli articoli 33 e 34 della Costituzione italiana. Ma la sbornia referendaria del 4 ottobre, con la riaffermazione del dogma dell'intangibilità della Costituzione, è passata e il sacro testo è già riposto, fra la polvere, in soffitta.

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Sveliamo subito chi sono i "vecchi fantasmi", che non tornano ma addirittura "ritornano", così da togliere subito di mezzo quel pò di suspense che il titolo potrebbe creare. I vecchi fantasmi sono quelli che agitano da sempre ampie porzioni di forze politiche, in maniera trasversale. Albergano sia in quelle aree della politica che non sono riuscite a liberarsi da antistoriche ideologie collettivistiche sia in quelle che, pur definendosi liberal-democratiche (ma mai fidarsi delle autocertificazioni), cedono facilmente a impulsi demagogici e populisti. Non c'è, infatti, nessun nesso fra le deprecabilissime e incivili liste di attesa e la libera professione dei medici all'interno della struttura pubblica, se non per un aspetto certamente esistente che assume contorni etici, ma la cui responsabilità non può ricadere sui medici avendo ben altre origini. Mi riferisco alla possibilità per il cittadino di accedere velocemente alle prestazioni sanitarie attraverso quello che appare come il canale privilegiato della libera professione e quindi a pagamento, prestazioni che altrimenti sarebbero fruibili, aspettando, novello Godot, lo scorrimento della lista di attesa, con tempi scandalosamente lunghi tanto da poter parlare di diritto alla salute negato. è il problema che mi posi quando, giovane medico ospedaliero, pensai di usufruire di una norma, introdotta dal contratto unico appena firmato, eravamo nel giugno del 1980 (!!), che dava la possibilità ai medici a tempo pieno, oggi in esclusività di rapporto, di esercitare la libera professione intramoenia. A distanza di poco tempo si era creato un doppio binario per cui le prestazioni in libera professione, da me esercitata per due ore settimanali, si effettuavano nel giro di qualche giorno, mentre per le stesse, prenotate dal centro unico , ci volevano, proprio per l'elevato numero, anche mesi. Il risultato era un travaso di pazienti verso l'attività a pagamento. La mia coscienza cominciò a interrogarmi, così, non avendo possibilità alcuna di ovviare al problema, decisi di risolverlo alla radice: rinunciai alla libera professione. Non ho, quindi, nessuna difficoltà a confermare che il problema esiste sotto il profilo etico e di giustizia sociale ma, pensare di superarlo impedendo ai medici la libera professione, ignorando le vere cause del fenomeno, vuol dire non avere alcuna intenzione di risolverlo ma soltanto di promuovere campagne di demonizzazione demagogiche dai risultati imprevedibili sulla credibilità e la tenuta del Sistema Sanitario pubblico. La storia della libera professione dei medici dipendenti ha origine con la riforma ospedaliera del 1968-69, la cosiddetta riforma Mariotti, dal nome del parlamentare socialista che la promosse. Con il DPR 27-3-1969, n.130, art.24, si stabiliva un doppio regime per i medici ospedalieri: chi vuole può optare per il rapporto di lavoro a tempo pieno, ovvero quaranta ore settimanali rinunciando a ogni attività libero-professionale extraospedaliera, o per il tempo definito, a trenta ore settimanali con la possibilità "del libero esercizio professionale, anche fuori dall'ospedale". Quindi la libera professione intramoenia era già allora riconosciuta e veniva confermata successivamente alla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, legge 833/78, con il DPR 761/79. Negli anni c'è stato un fiorire di normative nazionali e regionali, direttive, circolari applicative e esplicative, con una costante nelle diverse applicazioni: al nord di Roma si è cercato di organizzare al meglio tale attività per favorire introiti alla casse pubbliche e garantire  al cittadino il non trascurabile diritto nella scelta del medico curante, al sud, Roma compresa, è stata vista, dagli amministratori quasi un fastidio da rimettere all'arte di arrangiarsi del singolo medico. In pratica abbiamo una perfetta configurazione dell'Italia di sempre, spaccata in due con Roma a fare da trentottesimo parallelo. In verità per risolvere le liste di attesa, problema vero e inaccettabile in un Paese che vuole definirsi civile, servono interventi organizzativi, sulle strutture, sulle risorse umane, tecniche e strumentali, un controllo severo per la riduzione delle richieste inappropriate ma, per queste, anche un programma vasto di formazione e, perché no?, introducendo meccanismi premiali. Per concludere si può tranquillamente affermare che le liste di attesa non sono influenzabili dalla libera professione dei medici pubblici e ce lo conferma un dato in questo senso definitivo. La libera professione intramuraria riguarda l'8% delle prestazioni ambulatoriali. Essendo 50mila i medici che la svolgono si può dedurre facilmente che ogni medico espleta in media due - dico due - visite settimanali! A fronte di ciò l'Asl incassa il 30% degli emolumenti e lo Stato almeno il 40% con le tasse. Una visita specialistica, quindi, dal costo di100 euro garantisce al medico, che si deve sobbarcare anche dell'onere previdenziale ENPAM, la miseria di 20 euro! quando, ed è pressoché la regola, non ci deve aggiungere le spese di gestione del proprio ambulatorio visto che opera in extramoenia allargata, formula inventata in assenza di disponibilità di locali da parte delle Aziende. Ma allora chi ci guadagna abolendo la libera professione intramuraria? Le liste di attesa non si accorcerebbero di nulla, vista l'eseguità dell'impegno libero professionale del medico; gli incassi per  lo Stato, le ASL e le aziende ospedaliere scomparirebbero mentre alla fine i medici opteranno per rinunciare all'esclusività di rapporto ed essere liberi di svolgere la propria attività fuori dalla struttura, senza asfissianti vincoli burocratici, senza controlli sugli orari, sulle tariffe, con piena autonomia nei confronti degli obblighi fiscali e previdenziali. E l'esodo è già cominciato. Che affare! Ci viene da pensare alla famosa Maria...che non è quella di West side story. (Pubblicato su La Pelle, numero 7 - Luglio/Agosto)

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Tutto cominciò con la legge 833/78 del Ministro Tina Anselmi, quando nacquero le Usl, unità sanitarie locali, amministrate da un Comitato di gestione espressione diretta delle rappresentanze comunali, con un'ampia responsabilità gestionale e una discreta autonomia di programmazione. Nove anni dopo il Ministro Donat Cattin, novembre 1987, presentò il disegno di legge 1942 "Modifiche all'ordinamento del Servizio Sanitario  Nazionale" che introduceva il concetto di Usl ente-azienda, prevedendo la figura del Direttore Generale con ampi poteri gestionali e con un rapporto di lavoro di tipo privatistico. Il disegno di legge ebbe un lungo iter parlamentare che si concluse solo nel dicembre del '92, Ministro De Lorenzo, con il decreto legislativo 502. Gli organi delle Usl sono, a questo punto, il Direttore Generale e il Collegio dei Revisori, collocando così le Unità sanitarie locali, in via pressoché esclusiva, nell'orbita regionale, e di fatto sciogliendo i vincoli territoriali. La Usl  da  ente espressione delle comunità locali, che storicamente aveva gestisto l'assistenza sanitaria, dagli ospedali alle condotte mediche, diventa, nominalisticamente, azienda e si "configura come ente strumentale della Regione". Il successivo dlgs 517del dicembre '93, Ministro Garavaglia, conferma l'impianto del 502, in particolare per quanto riguarda gli organi dell'azienda. Il processo di  regionalizzazione della sanità è completato ma non certo quello dell'aziendalizzazione che da qui in poi subirà una netta inversione di marcia sancita dal dlgs 229/99, verso uno svuotamento dei poteri gestionali e di programmazione delle cosiddette Aziende sanitarie locali. Un decreto legislativo, voluto dal Ministro Bindi, pasticciato e confuso inventa, con enfasi, l'atto aziendale come espressione di un'autonomia delle ASL impossibile nella logica di una stringente programmazione regionale e di un neo-centralismo amministrativo altamente burocratizzato. Le regioni hanno accelerato sulla strada di uno svuotamento dell'autonomia delle ASL tanto che hanno deciso, nel tempo, una progressiva riduzione attraverso processi di accorpamento non sempre logici e funzionali e qualcuna, più coerentemente, ha pensato che poteva essere sufficiente un'unica ASL regionale. La Val d'Aosta da sempre, successivamente la provincia di Trento, da 2 a 1, quella di Bolzano da 4 a 1, le Marche da 13 a 1, il Molise da 4 a 1. D'altronde se il potere decisionale è tutto nelle mani della Regione e i Direttori Generali sono sempre di più, nella loro estrazione e formazione professionale, espressione dei ruoli regionali  e di fatto dei semplici terminali periferici delle decisioni centralistiche della Regione, non si vede proprio la necessità di tenere in piedi una pluralità di enti che hanno,  poi, perso collegamenti reali con il territorio se non per le polemiche che suscitano iniziative regionali di cui il Direttore Generale è un mero esecutore e infine solo cireneo. E ora, se permettete, una nota personale. Non nascondo una profonda amarezza per questa involuzione del processo di ammodernamento della sanità italiana nei suoi sistemi erogatori, e Dio solo lo sa di quanto ne avremmo bisogno di migliori e più efficienti, ripensando a quando nel presentare alla Camera, come relatore, il ddl di Donat Cattin, affermavo: "Io  condivido, senz'altro, come d'altra parte le forze politiche e sociali fanno ormai concordemente, l'esigenza di intervenire sull'assetto istituzionale delle Unità  sanitarie locali, allo scopo di metterle nelle condizioni di gestire efficacemente il budget di risorse finanziarie e umane che è ad esse conferito. Si tratta di far filtrare nell'organizzazione pubblica della sanità quegli elementi di privato, selezionati secondo una scelta politica che ci compete e che giudico strategica rispetto alla futura funzionalità del Servizio Sanitario Nazionale, utili a rendere qualitativa, dentro la cornice dell'unitarietà e della globalità dell'intervento sanitario, l'erogazione dei servizi al cittadino. Che il sistema sia incagliato nelle secche di una burocratizzazione massiccia e autoalimentata è certo. Il rifugiarsi dietro la stantia pratica della formalizzazione crescente delle procedure e conseguentemente dei controlli è segnale inequivocabile di crisi di organizzazione”. Un vecchio amico, collega medico, tempo fa mi rimproverava: "Albè, me ce avevi fatto crede". “Mi dispiace, Artù, ci avevo creduto veramente anch'io”.

Pubblicato su La Pelle n. 9, 2015