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del dott. Alberto Volponi

A ogni emergenza, negli anni passati, si è sempre invocato un nuovo piano Marshall visto il successo del programma di ingenti aiuti che gli Stati Uniti, all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, riversarono sull'Europa. L'ideatore fu il Segretario di Stato George Marshall che riteneva indispensabile, per favorire una ricostruzione dei paesi europei devastati dalla guerra, stanziare dei fondi: 12,7 miliardi di dollari. Siamo nel 1947: ne beneficiarono 16 Paesi dell'Europa dell'Ovest, la cortina di ferro si stava già alzando, e fu esclusa la Spagna che non aveva partecipato alla guerra ma anche perché era una dittatura con a capo il Caudillo Franco. All'Italia furono assegnati 1,5 miliardi nell'arco di 4 anni, 1948-52, e con essi si realizzarono opere fondamentali e si erogarono finanziamenti essenziali per la ripresa economica. Furono costruite case per le 3000 famiglie, o quello che rimaneva, che erano rimaste senza, a causa del terremoto di Messina del 1908! Sembra una prerogativa tutta nostra impiegare almeno mezzo secolo per ridare un tetto a terremotati o alluvionati! Quel miliardo e mezzo corrisponderebbe oggi - il conteggio non è semplice - a 160 miliardi di euro. Ora  l'Europa ci mette a disposizione 222 miliardi. Una non trascurabile differenza - e ce ne sarebbero ben altre con il piano Marshall - è che quei finanziamenti erano a fondo perduto e di un altro generoso Paese; questi sono soldi dell'Europa, quindi nostri, che in parte vanno restituiti. Il richiamo allora al famoso piano è puramente evocativo. Le risorse saranno allocate dal PNRR, piano nazionale di ripresa e risilienza. Di questo acronimo si poteva fare a meno dell'ultima R, resilienza. Il termine, di origine latina, sempre più di moda come spesso accade ad alcuni vocaboli che improvvisamente irrompono nel nostro parlare comune, destinati altrettanto velocemente all'oblio, vuol dire: “capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi”. Insomma il contrario del “mi spezzo ma non mi piego”, il “frangar non flectar” orgogliosamente declamato da Orazio. Un termine fin'ora confinato nel lessico della scienza, in particolare della fisica, e ora in voga nel suo significato figurato sconosciuto ai più. Al di là di tutto rimane l'interrogativo: questi euro, tanti, sapremo spenderli? Una consistente parte di questa massa di denaro sarà gestita dagli enti territoriali  la cui insufficienza delle strutture amministrative è ben nota, in particolare in alcune aree del Paese che è pleonastico menzionare. A tal proposito ha suscitato non poco clamore il fatto che il Ministero dell'Agricoltura abbia respinto ben 31 progetti, ovvero tutti, presentati dalla Regione Sicilia per impianti di irrigazione. Il PNRR per ovviare, o almeno tentare, alle carenze della pubblica amministrazione, prevede l'assunzione di personale qualificato: ma si riuscirà a reperirlo preparato come si vorrebbe e come sarebbe necessario? Il Ministero competente ha già indetto un bando, scadenza 31 dicembre, per mille supertecnici, ingegneri, esperti in varie materie, dal digitale all'ambiente. Cerchiamo di non essere pessimisti e di non pensare più ai 3000 navigator. Per la sanità sono destinati poco più di 20 miliardi. In programma la costruzione di 1350 case di comunità e 1200 ospedali di comunità. Per le case di comunità il modello di riferimento è quello tosco-emiliano-veneto. Tali strutture, in media ogni 40-50mila abitanti, sarebbero destinate a pazienti cronici e in esse opererebbero  medici di medicina generale, a cui affidare l'inquadramento diagnostico e il piano terapeutico, e gli infermieri, con un ruolo assistenziale più incisivo. Anche nei 1200 ospedali di comunità la centralità dell'assistenza sarebbe assegnata agli infermieri mentre un medico, sempre di medicina generale, assicurerebbe una presenza di 3 ore al giorno. Si sta, invero, disegnando induttivamente un nuovo modello organizzativo del SSN che ha, nella sua realizzazione, la forza propulsiva dei fondi disponibili. Ci si muove, come spesso accade, senza una visione complessiva del sistema sanità. Il rischio è che si creino nuove strutture prima ancora di razionalizzare l'attuale rete ospedaliera e ambulatoriale, raggruppando a rete gli ospedali esistenti o riducendoli di numero, così che il piano rischia di risolversi in un progetto di investimenti in edilizia sanitaria, ben poco funzionale se non  integrata con la realtà esistente. C'è, infatti, un altro nodo che non è stato affrontato: quello del personale. Solo per le necessità degli ospedali e delle case di comunità, l'Agenas prevede l’assunzione di 33mila nuovi infermieri. Per far fronte al funzionamento complessivo del nuovo sistema, così come ridisegnato, secondo il Crea dell’Università di Tor Vergata, sarebbe necessario assumere, a regime, dai 162mila ai 272mila infermieri. Ora i corsi di laurea in Scienze infermieristiche prevedono16 mila posti l'anno, nemmeno sufficienti a coprire il normale tournover pensionistico. La prova, ulteriore, che abbiamo una carenza è confermato da questo dato: operano, in Italia, 38mila infermieri stranieri e si rivedono in corsia, le “suorine”, questa volta filippine o indiane, sicuramente preparate e sempre sorridenti che ci fanno tornare indietro nel tempo quando le nostre suore ”tenevano”,  e bene, il reparto. Analogo discorso per i medici: carenze enormi, già oggi, negli organici ospedalieri, nella medicina specialistica e in quella generica. Per il personale medico si profila un'altra criticità: il modello di sanità che si sta delineando prevede, necessariamente, una revisione dei rapporti di lavoro e un superamento del regime delle convenzioni. Ma questo aspetto, non certo marginale, non viene affrontato con l'organicità e la chiarezza di idee necessarie. Se da una parte è urgente procedere a trovare fondi per nuove assunzioni, ricordando come non vi sono, per questo, risorse nel PNRR e né sono previsti nel bilancio dello Stato, rimane il problema della formazione. Sul banco degli imputati, per la carente programmazione formativa è stata posta sempre l'Università che avrebbe legato tale programmazione alle proprie esigenze e non a quelle della sanità italiana. Se questo è vero, e in gran parte lo è, è altrettanto vero che si sono sempre lesinati fondi all'Università per nuove strutture, implementare gli organici, investire in tecnologie: presupposti essenziali per poter formare più laureati, i quali "nun so fiaschi che s'abbottano”, si direbbe con ironia Roma. Un quadro con annosi problemi che la mancanza di una strategia complessiva e di largo respiro non ha mai affrontato e tantomeno risolto. Ma non spegniamo del tutto la flebile fiammella della speranza; qualche passo in avanti alla fine riusciremo a farlo. Del resto se siamo il Paese che ha affrontato, e sta affrontando, meglio di tutti la pandemia del Covid; se siamo il Paese in cui l'economia cresce del 6,3% nel 2021, attestato OCSE, ovvero terzi nel mondo dopo Cina e India, qualcosa vorrà pur dire.

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