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del Dott. Alberto Volponi

Tutta la storia dell'umanità è costellata da luttuosi, tragici eventi epidemici; grandi storici e scrittori ne hanno permesso la conservazione della memoria con indimenticabili pagine. Tucidite fa una descrizione dettagliata della peste che, proveniente dall'Etiopia, attraverso l'Egitto e la Libia arrivò in Grecia e nel 430 a.C.. La porta d'ingresso fu il Pireo, e la malattia giunta ad Atene fu così violenta da indebolirla a tal punto da segnare l'inizio del suo declino. Sofocle ambienta il suo Edipo Re nella Tebe devastata anch'essa, negli stessi anni, dalla peste. Lucrezio, 400 anni dopo Tucidite, tornò a descrivere la peste di Atene nel “De rerum natura” con una visione meno storiografica e più filosofica, invitando gli uomini a non avere paura dei “naturali sconvolgimenti e cataclismi di qualsiasi specie. Temere è turbarsi e turbamento è fonte di infelicita” ma Lucrezio era un epicureo... Della peste nera del ‘300 che sconvolse l'Europa con 20 milioni di vittime su una popolazione di 60 milioni di abitanti, hanno scritto, come sappiamo, il Boccaccio e lo stesso Petrarca che perse la sua amata Laura colpita dalla malattia. Manzoni dedicò alcuni capitoli del suo capolavoro alla descrizione della peste portata in Italia dai Lanzichenecchi, soldati mercenari scesi in Italia, attraversando la Valtellina nel 1630, per partecipare alla guerra di successione per Mantova e Monferrato fra la Spagna di Filippo IV e la Francia di Luigi XIII e Richelieu. Guy de Maupassant ,siamo alla fine dell'800, nel suo racconto “Il Porto”, ci descrive la tragedia di una immaginaria epidemia di peste che travolge, anche moralmente, la famiglia di un giovane marinaio francese di Marsiglia. Un nuovo successo sta riscuotendo “La peste” di Camus, libro scritto nel 1947 e ambientato a Orano dove la malattia è una metafora, sempre attuale, di un diffuso degrado politico. Anche le molteplici epidemie di colera ci sono state raccontate da grandi scrittori. Un autentico capolavoro è “La morte a Venezia”. Thomas Mann ambienta nella città lagunare, agli inizi del 1900, la storia di uno scrittore tedesco sconvolto dall’amore per il giovanissimo Tadzio: rimane a Venezia, travolto dalla passione, nonostante che la città sia infestata dal colera, e muore. Visconti nel 1971 farà del romanzo un bellissimo film con Dirk Bogarde. Verga ci racconta in “Quelli del colera” l'epidemia di metà ‘800 a Catania che raggiunse anche Palermo; quest'ultima è descritta nel recente libro “I Leoni di Sicilia”, insieme alla storia della famiglia Florio, dalla giovane Stefania Auci. La cronaca degli anni più recenti ci riporta alla memoria la “spagnola”, la prima pandemia   che scoppiò durante la prima guerra mondiale  e fece ben 50 milioni di morti  in tutto il mondo. “L'asiatica” del ‘57 che colpì in Italia metà della popolazione con trentamila morti ma in tutto il mondo si stima che le vittime siano state dai 2 ai 4 milioni. Nel ‘69 ci fu la “spaziale” con un terzo degli italiani a letto e ventimila morti. Ed eccoci ora con il coronarovirus. A un mese dall'inizio nel nostro Paese dell'epidemia, ora pandemia, ma la sostanza per noi non cambia, qualche prima riflessione possiamo cominciare a farla. è una esperienza che viviamo con un sottofondo di inevitabile paura. Paura che abbiamo cercato di esorcizzare, almeno fin’ora, attraverso i più fantasiosi flashmob e goliardici messaggi che intasano i nostri telefonini: la caccia al cinese, lo starnuto del Papa che desertifica in un attimo piazza San Pietro, l'Ultima cena di Leonardo senza più commensali. Abbiamo anche riscoperto un salutare orgoglio nazionale, con tanto di frecce tricolori, nella ferma convinzione che ce la faremo! Importante che la paura si connoti delle caratteristiche di razionalità e ci aiuti, con intelligenza, seguendo le indicazioni degli esperti sulle precauzioni da prendere. Bisogna imparare a governare la paura per evitare conseguenze più disastrose. Roosevelt nel discorso  inaugurale del suo primo mandato da Presidente degli Stati Uniti, afflitti dalla grande depressione del ‘29, ammoniva gli americani: “La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, l'irragionevole, ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in avanzata”. Così come dovremmo, per rimanere nel nostro italico orticello, riflettere sugli errori a catena di una classe politica che ha così pesantemente depauperato il nostro sistema sanitario di risorse umane, tecniche e finanziarie e che si sta reggendo grazie all'abnegazione, la professionalità dei medici, infermieri e di altri operatori, cui solo oggi riconosciamo i dovuti meriti e non esitiamo a definirli eroi dopo averli a lungo insultati, e fino a un mese fa, letteralmente mazziati. Va ripensato il quadro dell'allocazione delle risorse in settori strategici, quale si sta drammaticamente confermando la sanità, evitando colossali mance per captatio benevolentiae di intere categorie e fasce sociali; evitando sprechi come un referendum confermativo, quindi senza quorum elettorale, di una legge votata a stragrande maggioranza dal Parlamento sulla riduzione del numero dei parlamentari, per uno sfizio, che ci costerà 300 milioni, di 71 senatori. Nel contempo vanno ripensate anche le modalità di reperimento delle risorse, ovvero si dovrà mettere mano a quell'insulso sistema fiscale per cui metà degli italiani pagano le tasse anche per quelli che non le pagano o non le pagano nella misura dovuta. Una ingiustizia contributiva, una diseguaglianza, che si traduce in una politica di uguaglianza nell'accesso ai servizi, sempre più scadenti, ovviamente, per carenza di risorse. Altro insegnamento da trarre, il più importante per la tenuta democratica del sistema Italia, il riequilibrio dei poteri. Il federalismo all'amatriciana, di cui si vorrebbe fregiare il nostro Paese, ha mostrato tutta la sua pericolosità nell'affrontare l'emergenza sanitaria: il federalismo del caos! “Governatori” (di che? Ohio? Illinois?) così come sono stati arbitrariamente ribattezzati i Presidenti delle Regioni, hanno dato il meglio di sé sproloquiando, su tutte le reti televisive, con i loro virologi, infettivologi, epidemiologi di fiducia (nuova categoria professionale!). In primis il sempre più emaciato Fontana che si è anche esibito, maldestramente, nell'indossare una inutile mascherina, e il sempre più azzimato Zaia che è riuscito, con tutto il suo aplomb, a far innervosire (eufemismo di maniera) i cinesi con la storia dei topi mangiati crudi, lui che “governa” i vicentini da sempre inseguiti dal titolo di “magna gatti”. Per non parlare del campano De Luca, che è ormai, nelle sue performance televisive, difficile da distinguere dall'imitazione di Crozza. Oltre a loro finanche i sindaci dei più piccoli comuni si sono esibiti con ordinanze a volte grottesche, senza trascurare, nell'alimentare la confusione, il ruolo dei dirigenti scolastici con alcuni divieti incomprensibili. Finalmente il Presidente del Consiglio, una volta in pochette a quattro punte, una volta in maglione, si è ricordato dei doveri che gli impone la Costituzione, art. 117, punto q, e ha preso le redini del comando. Passata la burrasca con pesanti esiti sul piano sanitario, e con effetti più gravi e duraturi nel tempo sul piano economico con inevitabili riflessi sociali, dovremo prendere atto, volenti o nolenti, di non essere gli stessi di prima.  Certamente ci sentiamo, già ora, più fragili perché abbiamo ormai realizzato come la risposta a un evento che minaccia la nostra salute e la nostra stessa esistenza, la nostra economia, i nostri difficili equilibri sociali, non appartiene solamente a noi, e i nostri sforzi, in futuro, saranno destinati all'insuccesso in assenza di una strategia multilaterale. La governance, sia tecnica, probabilmente con un ruolo più incisivo dell'OMS, sia politica, di processi pandemici come l’attuale, non può che essere unica per il semplice motivo che il virus non conosce frontiere e che interventi circoscritti  nei confini tradizionali dei singoli Paesi, sono, alla prova dei fatti, scarsamente efficaci. Altro che sovranismi nazionali e federalismi regionali, autentico ossimoro istituzionale! Certo, per ora importante è uscirne fuori: primum vivere.

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