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di Rossella Gemma

Cervello, cuore e reni: una proteina li unisce come un filo rosso. E’ l’endotelina, molecola dalla struttura simile a quella della tossina di alcuni serpenti e la cui eccessiva produzione è collegata allo sviluppo di diverse malattie, tra cui ipertensione e insufficienza renale cronica. Recenti studi, inoltre, evidenziano il ruolo di molecole che ne attivano i recettori influenzando diversi aspetti del sistema nervoso, con benefici anche per pazienti che hanno avuto un ictus. Allo stesso tempo, la possibilità di modularne l’effetto attraverso i farmaci sta facendo crescere un campo di ricerca che guarda anche alla cura di calvizie e ai disturbi del sonno. A descrivere questa molecola e i filoni di ricerca in corso è stata la diciottesima “Conferenza internazionale sull’Endotelina ET-18”, co-organizzata a Roma dalla Fondazione Menarini: un congresso non incentrato su una malattia o una specifica area medica ma su una molecola ubiquitaria, coinvolta in tantissimi processi dell’organismo e per questo studiata da clinici di diverse aree: cardiologi, nefrologi, neurologi, pneumologi, endocrinologi e oncologi.

"Gli scienziati e i ricercatori - spiega Carmine Cardillo, presidente del congresso e professore di Medicina Interna all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma - stanno facendo progressi significativi nello studio di questa proteina chiave, prodotta dall’endotelio, organo con una superficie più grande di un campo da tennis e che costituisce il rivestimento interno dei vasi sanguigni. Proprio dei vasi sanguigni l’endotelina regola la funzione, essendo anche coinvolta nella proliferazione delle cellule muscolari lisce. Per questo è collegata a diverse funzioni fisiologiche ed è stata dimostrato un legame tra quantità eccessive nell’organismo e condizioni come ipertensione arteriosa e polmonare, aterosclerosi e malattie coronariche”. L'endotelina e i suoi recettori sono distribuiti anche in tutto il sistema nervoso, inclusi il cervello e il midollo spinale. A partire da qui, studi hanno dimostrato che gli agonisti dell'endotelina (che potenziano l'azione dei recettori) possono influenzare la sopravvivenza dei neuroni e sono coinvolti in processi come la neuroinfiammazione e la risposta al danno cerebrale, proteggendo dagli effetti devastanti dell’ictus.

Una funzione importante riguarda le malattie renali, come dimostrato già da un team di ricerca dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo. “Anche in queste condizioni, si verifica un'alterazione della produzione e dell'azione dell'endotelina nei vasi sanguigni e nei tessuti di reni. Questo - aggiunge - può portare alla progressiva perdita della funzione renale”. 

Interessata anche nel processo di crescita cellulare, l'endotelina potrebbe influenzare anche la caduta precoce dei capelli agendo sui follicoli piliferi e quindi il blocco dei suoi recettori potrebbe aiutare chi soffre di calvizie. “La regressione del follicolo pilifero è una fase naturale del ciclo di crescita dei capelli controllato da complessi meccanismi cellulari e molecolari, e l'endotelina può essere coinvolta in questo processo. Alcune ricerche scientifiche, hanno dimostrato che l'endotelina, può essere presente nel cuoio capelluto di persone affette da calvizie in quantità maggiori rispetto a coloro che non soffrono di questo problema. Tuttavia - precisa Cardillo - la relazione esatta non è completamente compresa e sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire il meccanismo preciso”.

L'endotelina e i suoi recettori sono presenti nelle regioni del cervello coinvolte nel controllo del complesso meccanismo di regolazione del ciclo sonno e della veglia. Ricerche cliniche condotte su pazienti affetti da disturbi del sonno hanno evidenziato un'associazione tra livelli anomali di endotelina nel sangue e la gravità di condizioni come l'apnea ostruttiva del sonno, che può portare a sonnolenza eccessiva durante il riposo. “L'identificazione di biomarcatori specifici legati all'endotelina potrebbe migliorare la diagnosi dei disturbi del sonno e alcuni gruppi di ricerca – prosegue Cardillo - stanno esplorando il potenziale utilizzo di farmaci che modulano l'attività dell'endotelina per migliorare la qualità del sonno nei pazienti con disturbi. Ma è ancora presto per capire se potranno servire a mettere a punto nuove terapie mirate”.

Tra le 45 relazioni di esperti internazionali e oltre 30 poster presentati al congresso co-organizzato dalla Fondazione Menarini, spazio è stato dato anche al ruolo di questa proteina rispetto a malattie autoimmuni, obesità, gestosi (una delle complicanze più serie della gravidanza che colpisce circa il 3-5% delle donne), tumore dell’ovaio e dolore cronico. “Quel che è certo è che 35 anni dopo la scoperta e oltre 34.000 studi scientifici pubblicati, l’endotelina resta ancora un’affascinante campo da esplorare”, conclude Masashi Yanagisawa, professore all’Università giapponese di Tsukuba, presidente onorario del congresso e scopritore dell’endotelina nel 1988.

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di Rossella Gemma

Il parto prematuro, definito come un parto che avviene prima delle 37 settimane di gestazione, è la causa principale di mortalità neonatale nel mondo e si verifica una nascita ogni dieci. Esistono diverse strategie terapeutiche atte a prevenire o ridurre il rischio di prematurità, come il progesterone, il cerchiaggio, il pessario, e, soprattutto, modifiche allo stile di vita della futura mamma.

Negli ultimi anni, diversi studi si sono concentrati sulla valutazione dell’efficacia dei micronutrienti nella prevenzione delle complicanze ostetriche della gravidanza.

Tra questi rientra il lavoro dal titolo “Supplementazione orale in gravidanza con arginina, magnesio, calcio, e salice, nella prevenzione del parto prematuro”, a cura del Dott. Gabriele Saccone del Dipartimento di Neuroscienze, Scienze della Riproduzione e Odontostomatologiche, Facoltà di Medicina, dell’Università Federico II di Napoli e Dott.ssa Floriana Carbone, del Policlinico Milano - Mangiagalli Center, pubblicato sul Journal of Obstetrics and Gynaecology 2020.

In questo studio, gli autori hanno cercato di valutare l’efficacia della supplementazione orale di un nuovo integratore contenente Arginina (3g), Salice (320 mg), Solfato di Magnesio (1g) e Calcio (1g), nella riduzione del rischio di parto pretermine.

In particolare, è stato condotto uno studio retrospettivo di coorte confrontando due gruppi: un gruppo intervento ha ricevuto la supplementazione dal I trimestre fino a 30 settimane; e un gruppo controllo (standard care). Sono stati inseriti nel campione donne a rischio di parto pretermine per anamnesi (precedente parto pretermine), o donne con diabete, ipertensione, o gravidanza multipla.

150 donne hanno ricevuto il trattamento e sono state confrontate con un altro gruppo di 150 donne, matchato per caratteristiche demografiche. I risultati hanno evidenziato che il gruppo intervento aveva una riduzione statisticamente significativa del rischio di parto pretermine, e un peso del neonato alla nascita maggiore.

In conclusione, lo studio ha dimostrato che una supplementazione giornaliera con arginina, salice, solfato di magnesio, e calcio, alle dosi rispettive di 3g, 320 mg, 1g, 1g, durante la gravidanza riduce il rischio di parto prematuro, nelle donne a rischio.

Fattori di rischio sono l’età materna avanzata, la gemellarità, la fertilizzazione in vitro, familiarità per preeclampsia, obesità, patologie autoimmuni materne, ipertensione pregravidica, diabete preconcezionale. L’assunzione di integratori alimentari a base di Arginina, Salice, Solfato di Magnesio e Calcio, come Euplacent di Eutylia, favorisce la fase iniziale dell'impianto embrionale, aiuta a prevenire gestosi, minacce di parto pretermine, poliabortività e alterazioni del microcircolo nell’impianto embrionale. Grazie alla sua esclusiva formulazione, infatti, aiuta a migliorare la circolazione sanguigna materna, l’attecchimento embrionale ed il processo di sviluppo della placenta, riducendo lo stress ossidativo e i disturbi ipertensivi in gravidanza.

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di Rossella Gemma

Non si vedono, ma si sentono eccome. La vita delle vittime di INOCA, l’ischemia senza malattia coronarica ostruttiva, e di MINOCA, infarto del miocardio senza ostruzione, può essere un vero e proprio incubo. I sintomi di questi due gravi condizioni possono compromettere notevolmente la qualità della vita di chi ne soffre. Una recente ricerca pubblicata sull’International Journal of Cardiology, condotta su quasi 300 pazienti con INOCA, ha rivelato che il 34% ha convissuto con dolore toracico, oppressione o disagio per oltre 3 anni prima di ricevere una diagnosi. Al 78% è stato erroneamente detto, ad un certo punto, che i loro sintomi non erano legati al cuore. Il 75% è stato costretto addirittura a ridurre il proprio orario di lavoro o a licenziarsi a causa della propria condizione. Circa il 70% ha affermato che la propria salute mentale e le proprie prospettive di vita sono peggiorate e più della metà (54%) ha affermato che i propri sintomi hanno influenzato negativamente la relazione con il proprio partner o coniuge. Considerata la somiglianza dei sintomi e il ritardo diagnostico, questi risultati possono essere estesi anche al MINOCA. Questo è uno dei temi che verranno affrontati in occasione del 44° Congresso Nazionale della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), a Milano fino al 6 ottobre. 
 
“I disturbi cardiovascolari continuano a essere una delle principali cause di ricovero in ospedale e di morte sia per gli uomini che per le donne – afferma Giovanni Esposito, presidente GISE e direttore della UOC di Cardiologia, Emodinamica e UTIC dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli -. In molti casi, specialmente nelle donne, ischemie e infarti del miocardio non presentano occlusioni significative nelle arterie che irrorano il cuore (malattia coronarica ostruttiva)”. L’ischemia senza la malattia coronarica ostruttiva, INOCA, è una patologia che colpisce principalmente le donne, ed è probabilmente il motivo per cui per anni molte pazienti che si sono presentate in ospedale con dolore toracico sono state dimesse e rimandate a casa perché non vi era alcun blocco evidente nelle loro arterie coronarie. “Tuttavia, negli ultimi anni l’INOCA è stata riconosciuta come una condizione reale ed è ora argomento di discussione nella maggior parte dei convegni mondiali di cardiologia – prosegue Esposito –. Oggi si stima che può riguardare il 62% delle donne che si sottopongono ad angiografia coronarica per sospetta angina, con un’accentuata prevalenza di quelle con 45-65 anni d’età. In passato, non avevamo gli strumenti giusti per fare la diagnosi, ma ora sappiamo che la maggior parte di questi pazienti ha una disfunzione microvascolare coronarica, dove i piccoli vasi non sono in grado di dilatarsi completamente per aumentare il flusso sanguigno a causa dello stress o dell'esercizio fisico. Oppure soffrono effettivamente di una costrizione o un vasospasmo, dove può esserci un restringimento significativo delle arterie coronarie e quindi i pazienti presentano dolore toracico”.

In alcuni casi, l’ischemia può avere come esito un vero e proprio infarto miocardico, pur in assenza di ostruzioni evidenti delle arterie coronarie, condizione chiamata MINOCA: si stima succeda nel 6% dei casi, più frequentemente tra le donne. “Un sottogruppo di casi di MINOCA è dovuto alla dissezione spontanea dell'arteria coronaria (SCAD), che è una rottura che si forma all'interno della parete di un vaso coronarico – evidenzia Francesco Saia, presidente eletto GISE e cardiologo interventista all'IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Policlinico Sant’Orsola –. Nella maggior parte dei casi di MINOCA, è difficile identificare la causa. Così succede che, poiché non si riscontrano ostruzioni nelle arterie coronarie principali, i pazienti spesso lasciano l’ospedale incerti su cosa abbia causato il loro attacco cardiaco MINOCA e su come prevenirne un altro”. Si stima che nei 4 anni successivi a un evento MINOCA, ci sia il 13% di probabilità di morire per qualsiasi causa e il 7% di probabilità di avere un altro attacco cardiaco. “La buona notizia è che con l’applicazione su ampia scala di raffinate tecniche di fisiologia coronarica e/o di imaging aumentano le probabilità di ottenere una diagnosi corretta e cure appropriate nella maggior parte dei casi – conclude Saia -. Questo argomento ha altri risvolti, oltre a quello clinico. Queste procedure, infatti, non hanno un rimborso ad hoc. Il GISE sta lavorando da tempo a un riconoscimento economico che faccia sì che l’applicazione di questi presidi non sia economicamente svantaggiosa per le strutture sanitarie e che ne venga quindi allargato l’accesso su tutto il territorio nazionale”.

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di Rossella Gemma

Un infarto a cinquant’anni, un ictus ancora prima di andare in pensione: è il destino che aspetta chi ha la pressione alta già a 18 anni, stando a un ampio studio svedese appena pubblicato sugli Annals of Internal Medicine secondo cui essere ipertesi in tarda adolescenza aumenta considerevolmente il rischio cardiovascolare da adulti. Un problema che riguarda tanti italiani: si stima che quasi 2 milioni di under 35 abbiano già i valori di pressione alterati, spesso senza saperlo e in gran parte dei casi per colpa di uno stile di vita sbagliato fatto di dieta scorretta, sedentarietà, fumo e alcol. Così, in occasione della Giornata Mondiale del Cuore 2023, gli esperti della Società Italiana di Cardiologia (SIC) raccomandano di iniziare a misurare la pressione già da adolescenti, per prendersi cura della salute cardiovascolare e restare in salute a lungo: una diagnosi precoce dell’ipertensione può consentire un cambio di rotta tempestivo nelle abitudini e può salvare letteralmente la vita.

“I dati appena pubblicati da ricercatori delle università svedesi di Umea e Uppsala sono molto solidi: quasi 1,4 milioni di uomini a cui è stata misurata la pressione durante la visita di leva a 18 anni sono stati seguiti fino a cinquant’anni, consentendo così di valutare la correlazione fra ipertensione giovanile e probabilità di eventi cardiovascolari successivi - spiega Pasquale Perrone Filardi, Presidente SIC e Professore Ordinario di Cardiologia e Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare all’Università Federico II di Napoli -. Nel campione svedese circa il 29% dei diciottenni aveva valori di pressione alterati, superiori a 120/80 mmHg, il 54% poteva essere classificato come iperteso. In queste persone, negli anni, si è registrato un graduale e sostanziale incremento nel rischio di eventi cardiovascolari, tanto che un diciottenne iperteso su dieci ha avuto un infarto o un ictus prima della pensione mentre a chi aveva la pressione bassa questo non accadeva. Questi dati indicano la necessità di iniziare a controllare la pressione fin dall’adolescenza: prima compare questo fattore di rischio, più tempo ha per fare danni, perciò la prevenzione cardiovascolare deve iniziare da giovanissimi, cercando di individuare i ragazzi a rischio”. 

L’ipertensione arteriosa in età adolescenziale e giovanile sta riscuotendo una preoccupazione sempre maggiore per le ripercussioni che essa può avere per la salute da adulti. Anche bambini o adolescenti con valori elevati di pressione hanno una grande probabilità di diventare ipertesi nell’età adulta e pertanto essere a rischio più elevato per lo sviluppo di malattie cardiovascolari. Nel nostro Paese circa il 14% degli under 35, pari a circa 2 milioni di persone, ha già la pressione alta e perfino i bambini possono avere valori alterati: secondo alcune stime fino al 4% dei bimbi e ragazzini fra sei e undici anni ha la pressione elevata per la sua età come spiegaFrancesco Barillà, Presidente della Fondazione “Il Cuore Siamo Noi”, Professore Associato di Cardiologia e Direttore della Cardiologia dell’Università di Roma Tor Vergata. “Pochi genitori ci pensano, anche i medici raramente controllano la pressione in bambini e ragazzi, invece sarebbe bene fare la misurazione una volta all’anno ai controlli di crescita iniziando attorno ai cinque, sei anni. Misurare la pressione è un gesto semplice che diventa indispensabile nei giovani che hanno genitori o altri parenti stretti con l’ipertensione o che sono sovrappeso, uno dei fattori di rischio più rilevanti per lo sviluppo della pressione alta. Scoprire l’ipertensione in un ragazzo significa poter agire tempestivamente, per ridurla e diminuire così anche il rischio cardiovascolare negli anni a venire: negli adolescenti e nei giovani adulti, solitamente non sono necessarie cure farmacologiche, è sufficiente intervenire sullo stile di vita, cercando di cambiare le abitudini in modo da mantenere il giusto peso attraverso una dieta equilibrata ricca di frutta, verdura e cerali integrali e povera di sale, grassi saturi e zuccheri. Fondamentale aumentare ad almeno 150 minuti alla settimana l’attività fisica e soprattutto evitare fumo e alcol, entrambi fattori che danneggiano cuore e vasi. Infine, è opportuno insegnare ai giovani anche una buona gestione dello stress, che contribuisce a innalzare la pressione ed è un elemento di rischio molto frequente fra i giovani adulti”.

 

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di Rossella Gemma

"Con l'entusiasmo delle origini, verso nuovi orizzonti". E' questo il titolo del 64esimo congresso della Società Italiana di Nefrologia che si terrà a Torino dal 4 al 7 ottobre. Le nuove opportunità terapeutiche per il contrasto della progressione del danno renale, l'impiego della tecnologia- in particolare della telemedicina e dell'Intelligenza Artificiale-, la terapia domiciliare dei pazienti in dialisi, le ricerche di frontiera nel campo del trapianto renale, saranno al centro dei lavori che coinvolgeranno esperti, professionisti e ricercatori di nefrologia da tutto il Paese.
 
I problemi renali coinvolgono una fetta importante della popolazione, dal 7 al 10%, uomini e donne in eguale misura. "I reni sono spesso coinvolti in malattie e condizioni non renali come il diabete, l'ipertensione arteriosa e le malattie cardiovascolari oltre che in alcune malattie sistemiche, in particolare quelle reumatologiche, molto spesso in modo subdolo. I reni, infatti, hanno dei meccanismi di compenso e i sintomi appaiono solo quando la funzione renale si è molto ridotta, almeno sotto al 60%", spiega Stefano Bianchi, Presidente della Società Italiana di Nefrologia. Da qui l'appello che la SIN lancia dal congresso: "Chi soffre di una malattia ad alto rischio di presentare un danno renale, dovrebbe controllare in maniera sistematica la salute dei suoi reni".
 
D'altronde, dopo molti anni di quiescenza terapeutica, la Nefrologia sta vivendo un momento in cui le opportunità terapeutiche per contrastare la progressione del danno renale sono numerose ed innovative. Fra queste l'utilizzo del finerenone nei pazienti con e senza diabete: la sua azione contrasta la progressione della malattia renale e anche lo sviluppo delle sindromi cardio-renali. La disponibilità di un farmaco, roxadustat, in grado di contrastare l'anemia da malattia renale cronica, una conseguenza della malattia che coinvolge il 90% dei pazienti e che influisce pesantemente sulla loro qualità di vita. Un medicinale, difelikefalin, che ha dimostrato di lenire il prurito sistemico legato alla malattia renale, un sintomo invalidante che colpisce il 40% dei pazienti, soprattutto dializzati. "Con l'entusiasmo delle origini, questa edizione del congresso riflette l'ottimismo e la volontà di guardare verso nuovi orizzonti", afferma Bianchi. "In un mondo che sta affrontando molteplici sfide sanitarie, il campo della nefrologia sta dimostrando di essere al passo con l'innovazione e la ricerca per migliorare la salute dei pazienti".
 
Sul fronte delle patologie, quelle che possono colpire i reni sono molte, in alcuni casi si tratta di malattie rare ma non per questo meno gravi. Come le glomerulonefriti, alcune di origine genetica, patologie che colpiscono i giovani che rappresentano una delle principali cause di insufficienza renale terminale. Per alcune di queste è oggi disponibile una nuova molecola, sparsertan, che ha dimostrato di ridurre i danni a carico dei reni. Novità anche nel campo della nefrite lupica, una delle conseguenze del lupus erimatoso sistemico, che colpisce soprattutto le donne: è disponibile una nuova molecola, voclosporina, che rappresenta un'opzione più efficace e di semplice gestione rispetto a quanto a disposizione fino a oggi. Infine, una grande speranza arriva dalla terapia genica contro la malattia di Fabry, causata da un aumento anomalo di lipidi a livello dei lisosomi cellulari, specialmente nei tessuti viscerali e nell'endotelio vascolare di tutto l'organismo.
 
"La terapia, che è stata approvata per la sperimentazione clinica in fase II fino a oggi solo in Canada, agisce attraverso un vettore virale che trasporta all'interno delle cellule del fegato una versione sana del gene GLA, la cui mutazione è alla base della malattia. L'idea è quella di far produrre dalle cellule in cui è stato inserito il gene sano la versione funzionante dell'enzima alfa-galattosidasi A (GLA), che così potrebbe entrare in circolo riducendo l'accumulo di lipidi nei tessuti dei pazienti", spiega Sandro Feriozzi, responsabile scientifico del 64esimo Congresso SIN e Direttore UOC Nefrologia e Dialisi Viterbo-Università Campus-Biomedico Roma.
 
Certo, la nuova frontiera tecnologica della medicina può dare una grande mano alla gestione dei pazienti. La possibilità di curare il paziente cronico a casa, infatti, è diventato un elemento cruciale per il servizio sanitario: per migliorare la qualità di vita delle persone- che potrebbero gestire meglio il loro tempo e preservare la loro privacy- ma anche il servizio offerto nei centri, dove dovrebbero afferire solo i pazienti che non possono avvalersi della dialisi peritoneale o dell'emodialisi domiciliare. Eppure, come spiega Mariacristina Gregorini, Segretario Sin e Direttore Nefrologia e Dialisi Ausl- irccs di Reggio Emilia, la diffusione di questa opzione è ancora molto limitata su tutto il territorio, con un dispendio di tempo e risorse. "Ci sono tuttavia alcuni casi virtuosi in Italia che ci permettono di guardare verso nuovi orizzonti di cura. Che è il nostro impegno quotidiano per migliorare aspettativa e qualità di vita dei pazienti" aggiunge Gregorini, oltretutto "riducendo i costi per il Servizio sanitario nazionale e rendendo più efficienti gli ospedali, attraverso la creazione di percorsi assistenziali integrati fra ospedali e territorio".
 
Ma quale ruolo potranno avere telemedicina e Intelligenza Artificiale nella pratica clinica in nefrologia? Forti dell'esperienza accumulata durante la pandemia, oggi i nefrologi italiani sono pronti a raccogliere la sfida sostenuta anche da Pnrr nell'ottica di ri-orientare la risposta sanitaria verso un approccio domiciliare e territoriale grazie alla telemedicina e l'assistenza da remoto. Il gruppo di lavoro Istituto superiore di sanità-Sin sta elaborando un documento di consensus nazionale sulla telemedicina in nefrologia che ha stabilito i requisiti indispensabili per offrire servizi quali la teleassistenza, la televisita e il teleconsulto.
 
L'urgenza di implementare la telemedicina è oggi ancor più evidente sulla base dell'aumento già registrato dei casi di Covid-19. Gli ospedali assistono infatti a una nuova ondata di infezioni che, sebbene di durata e di intensità minore rispetto al periodo pandemico, sono molto rischiose per le popolazioni fragili come quella dei pazienti nefropatici: dializzati, trapiantati e immunodepressi. "Ricordiamo che la mortalità per i pazienti nefropatici era stata nella prima fase pandemica del 40%, poi drasticamente ridotta con la somministrazione dei vaccini che però non ha ridotto il tasso di trasmissione", sottolinea Gregorini.
 
Nella sessione dedicata al trapianto renale si spazierà dai problemi consolidati, come la recidiva delle glomerulonefriti nell'organo trapiantato, fino agli aspetti più innovativi di biologia molecolare per l'esecuzione e il monitoraggio del trapianto stesso. Verranno infine approfondite le novità che arrivano dagli Usa dove è stato eseguito negli scorsi mesi un trapianto di un rene di maiale geneticamente modificato su un paziente clinicamente deceduto.
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di Rossella Gemma

L’emicrania è una patologia neurologica disabilitante che, nonostante il suo impatto sulla vita delle persone che ne soffrono e sulla società, resta ad oggi sotto diagnosticata e spesso non adeguatamente trattata. Diverse le cause, su tutte la poca informazione e la difficoltà di una corretta diagnosi e di accesso ad un centro specializzato sul territorio. Si è affrontato questo tema dal punto di vista di pazienti, clinici e istituzioni, durante l’evento “Emicrania: nuove prospettive per il paziente tra innovazione, ricerca e opportunità normative”, organizzato da Lundbeck Italia a Roma presso il Palazzo Theodoli e moderato da Raffaella Cesaroni, giornalista di Sky TG24.

“Secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'emicrania rappresenta la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante. Colpisce circa il 14-15% degli adulti in tutto il mondo con una prevalenza tre volte maggiore nelle donne”, ricorda Paolo Calabresi, Direttore dell’Unità Operativa Complessa Neurologia, Professore Ordinario dell’Istituto di Neurologia Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS e Past President della Società Italiana Studio Cefalee (SISC). Colpisce anche le fasce più giovani e nonostante il suo impatto sia elevatissimo da ogni punto di vista (umano, sociale ed economico), ancora oggi viene definita patologia 'invisibile'.  L’emicrania è causa di assenteismo a scuola e al lavoro, comporta difficoltà nelle relazioni sociali e di coppia, può generare solitudine, ansia e associarsi a depressione.

L’emicrania episodica è una malattia neurologica ad alto rischio di cronicizzazione se non curata in modo adeguato. Quando poi si presenta in forma cronica, comporta grave disabilità, elevati costi e rischio di uso eccessivo di farmaci sintomatici. Questo uso eccessivo di farmaci rappresenta una malattia nella malattia. “Le conseguenze della terapia inadeguata, evidenziate dal Registro Italiano dell’Emicrania – spiega Piero Barbanti, Direttore dell'Unità per la Cura e la Ricerca su Cefalee e Dolore, IRCCS San Raffaele, Roma; Professore Associato di Neurologia, Università San Raffaele, Roma; Presidente dell’Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee - sono nomadismo sanitario (ovvero pazienti che vagano per centri cefalee alla ricerca di una cura); visite specialistiche frequenti, ma inutili (una media di 18 specialisti diversi per chi abbia almeno 25 giorni di emicrania al mese); esami diagnostici non necessari o erronei nel 95% dei casi, di cui 8-9 volte su 10 a carico del Servizio Sanitario Nazionale”.

In questo contesto, “l’arrivo di anticorpi monoclonali anti-CGRP – afferma il Prof. Barbanti - sta cambiando in maniera rapida ed irreversibile la terapia perché permette di ridurre il numero di attacchi, diminuendone anche intensità e durata”. Ma anche in questo campo l’innovazione è ancora in corso. Dopo la disponibilità delle formulazioni sottocutanee è stato di recente autorizzato in Italia il primo anticorpo monoclonale anti-CGRP a somministrazione endovenosa. Con la determina 440 del 20 giugno 2023, l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha riconosciuto la rimborsabilità per questo trattamento per la profilassi dell’emicrania nei pazienti adulti.  “Presenta alcune rilevanti specificità - precisa il Prof. Barbanti - permette una somministrazione in 30 minuti, 4 volte all’anno, ovvero una ogni 3 mesi (12 settimane). Ha una particolare rapidità di insorgenza dell’effetto profilattico, correlabile al peculiare profilo farmacocinetico dovuto alla via di somministrazione endovenosa, e un effetto preventivo sostenuto nel tempo. La sua efficacia preventiva è stata provata sia per l’emicrania episodica che cronica, in presenza o meno di uso eccessivo di analgesici e di fallimenti di precedenti terapie antiemicraniche preventive”. Inoltre, aggiunge il Prof. Barbanti, “il favorevole profilo di tollerabilità e sicurezza di eptinezumab è stato provato anche nel lungo termine, come mostrano i dati, fino a 2 anni dall’inizio del trattamento”.

“Secondo l’OMS, l'emicrania da sola è la causa principale di disabilità in tutto il mondo in pazienti di età inferiore a 50 anni. La sua fisiopatologia - afferma Alessandro Padovani, Professore Ordinario di Neurologia dell'Università di Brescia e Presidente eletto della Società Italiana di Neurologia (SIN) - è complessa. Tuttavia, è ormai chiaro il ruolo centrale dell’attivazione delle vie trigemino-vascolari, che provoca il rilascio di sostanze vasodilatatrici, proinfiammatorie e neuropeptidi divenuti i target principali nel trattamento della patologia. Infatti, negli ultimi anni sono stati sviluppati farmaci che agiscono sul peptide CGRP (peptide correlato al gene della calcitonina). Gli anticorpi monoclonali e i gepanti neutralizzano il CGRP oppure bloccano il suo recettore e, di conseguenza, agiscono antagonizzando un meccanismo centrale nella patogenesi dell’emicrania. Grazie a questi farmaci e all’utilizzo della tossina botulinica – prosegue il Prof. Padovani - si è aperta una nuova era nel campo delle cefalee, creando le condizioni per trattamenti precisi e personalizzati per la prevenzione dell’emicrania, con miglioramento dell’efficacia e del profilo di sicurezza e tollerabilità”.

L’emicrania, definita anche malattia ‘invisibile’, ha effetti però molto concreti sia sulle persone che ne sono affette che indirettamente sui loro familiari, influenzandone la qualità di vita. Inoltre, quando diventa cronica, l’emicrania è associata a un maggiore onere economico globale dovuto alla perdita di produttività lavorativa e all’aumento delle spese sanitarie. “Guardando all’Italia - afferma Francesco Saverio Mennini, Research Director Eehta del Ceis, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e Presidente della Società Italiana di Health Technology Assessment (Sihta) - i dati di letteratura stimano un costo annuo complessivo per paziente (costi diretti e perdite di produttività) equivalente a circa € 11.300, più alto rispetto a pazienti con diabete (circa € 8.300) o di pazienti con insufficienza renale cronica (range € 7.000-9.600). Il costo diretto annuale di chi ha la forma cronica è 4,8 volte superiore a quello di chi ne soffre in modo episodico (€ 2.037 contro € 427).  Le giornate di ridotta capacità produttiva incidono per il 64,6% sul totale dei costi indiretti. La consapevolezza dei costi di una patologia così invalidante – aggiunge Mennini - dovrebbe essere, per la politica e le istituzioni, motivo per prendere decisioni informate sul modello assistenziale e sulle risorse da destinare per supportare percorsi di cura adeguati, presa in carico precoce dei pazienti, senza dimenticare i bisogni ancora insoddisfatti che, se non affrontati per tempo e con terapie adeguate, determineranno un ulteriore incremento dei costi tanto per il welfare che per i pazienti e i caregiver”.

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di Rossella Gemma

Il 41,8% dei giovani chirurghi italiani sta pensando di abbandonare la professione a causa di turni massacranti, scarsa formazione e contenziosi. È il principali risultato emerso dalla survey targata ACOI Giovani e presentata durante la sessione dal titolo ‘Il chirurgo nel 2023: una razza in via di estinzione’, in occasione del 41esimo Congresso nazionale dell’Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani (ACOI) che si chiuso a Roma presso il Centro Congressi ‘La Nuvola’ dell’Eur. L’indagine, esposta dai dottor Alberto Molteni e Daniele Delogu, è stata condotta su 237 giovani chirurghi di tutta Italia che lavorano tra ospedali pubblici e privati convenzionati.
 
“Oggi i giovani chirurghi hanno raccontato le loro storie, alcuni sono ancora in formazione altri sono già specialisti che si stanno inserendo nel mondo della formazione. Ho ascoltato una situazione pericolosa- ha commentato il presidente di ACOI, Marco Scatizzi- c’è un allarme, un grido di aiuto che proviene da loro per una serie di problematiche e inadempienze delle scuole di specializzazione. Purtroppo dobbiamo dirlo, perché sono loro a testimoniarcelo attraverso questionari che sono stati diffusi con centinaia di risposte. Noi dobbiamo assolutamente prendere dei provvedimenti e stimolare le istituzioni a far sì che cambi il sistema di formazione e che le scuole di specializzazione si modifichino. È necessario che per la formazione sia affiancato molto più spazio agli ospedali e poi, ovviamente, dobbiamo fare molto di più anche a livello contrattuale”.
 
Nel corso dell’incontro è stato proiettato anche un video con testimonianze di giovani chirurghi che hanno abbandonato la professione. “A chiosa di tutte le testimonianze dei colleghi, che loro malgrado e con grande sofferenza hanno lasciato la chirurgia, la vera sfida è rimanere per seguire la nostra passione che ci accomuna- ha commentato Anna Guariniello, del Comitato scientifico di ACOI- Però per resistere, per superare questa grandissima impasse, bisogna agire su tre ordini di livelli: formativo, riconoscendo a tutti gli effetti gli ospedali come cardine della formazione per il chirurgo, perché sappiamo tutti che questo non trova ad oggi un riconoscimento formale; bisogna poi sensibilizzare le istituzioni e le aziende sanitarie per assumere e stabilizzare i giovani colleghi e garantire ai dipendenti condizioni di lavoro accettabili; il terzo punto è tutelarli e supportarli non solo dal punto di vista medico-legale, che è fondamentale, ma anche da quello psicologico, cruciale per il chirurgo, perché sappiamo che è pane quotidiano fronteggiare gli eventi avversi. La soluzione non è mandare allo sbaraglio i neo specialisti, ma concepire insieme un piano d’attacco- ha concluso- individuando i punti cardine e coinvolgendo appunto istituzioni e aziende”.
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di Rossella Gemma

Arriva in Italia la prima e unica immunoterapia antitumorale in adiuvante per il trattamento del tumore al polmone non a piccole cellule (NSCLC) in fase iniziale: l'anticorpo monoclonale atezolizumab sviluppato da Roche è ora disponibile per questa indicazione anche nel nostro Paese, a seguito dell'autorizzazione alla rimborsabilità da parte di AIFA - Agenzia Italiana del Farmaco, pubblicata in Gazzetta Ufficiale a luglio. E' quanto scrive nella nota l'azienda farmaceutica Roche.
 
L'approvazione italiana, che segue quella europea dello scorso anno, si basa sullo studio globale di fase III, multicentrico, open-label, randomizzato IMpower010, i cui risultati hanno dimostrato che il trattamento con atezolizumab in adiuvante, dopo resezione completa e chemioterapia a base di platino, ha ridotto il rischio di recidiva della malattia o di morte del 57% nei pazienti con NSCLC in stadio II-IIIA (secondo il sistema di stadiazione UICC/AJCC, settima edizione) con alta espressione di PD-L1 e in assenza di mutazioni di EGFR o riarrangiamenti di ALK, rispetto alle migliori terapie di supporto. A fronte di un alto tasso di recidive, con circa il 60% dei pazienti in stadio II e il 75% dei pazienti in stadio III che presentano una ricaduta a 5 anni dall'intervento, la gestione del paziente con NSCLC in stadio precoce era fin ad oggi una sfida ancora aperta per ricercatori e clinici.
 
"La recidiva è un evento frequente anche per i pazienti in stadio precoce completamente resecati e un momento devastante nel percorso di cura. Con l'obiettivo di rendere questi stadi di malattia realmente guaribili, la ricerca punta pertanto alla riduzione della percentuale di recidive, sempre nel rispetto della qualità di vita del paziente. L'immunoterapia si è rivelata un ottimo mezzo per raggiungere questo scopo- dichiara Silvia Novello, Professore ordinario di Oncologia Medica, Università degli Studi di Torino e Presidente WALCE Onlus- Poter disporre ora dell'innovazione di atezolizumab come prima immunoterapia approvata in adiuvante contribuisce a 'ridurre significativamente il rischio di recidiva e ad ampliare le prospettive di cura per i pazienti". Fondamentale in questo contesto che la presa in carico ‘ottimale’ del paziente con NSCLC in stadio precoce avvenga da parte di un team multidisciplinare che, insieme all'oncologo, si riunisce per ‘discutere, valutare insieme la situazione e’ garantire la scelta del trattamento migliore.
 
"Attualmente radiologi, medici nucleari, pneumologi interventisti e chirurghi toracici valutano l'operabilità o meno dei tumori polmonari NSCLC negli stadi precoci, considerando che la chirurgia con intento curativo è ad oggi l'opzione standard di trattamento per una prognosi migliore- spiega Filippo de Marinis, Direttore della Divisione di Oncologia Toracica dell'Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano e Presidente AIOT (Associazione Italiana Oncologia Toracica)- Dopo l'intervento, il patologo identifica lo stadio della malattia resecata che guida l'indicazione agli eventuali trattamenti adiuvanti di chemioterapia. Con la rimborsabilità di atezolizumab, il patologo può eseguire il test del PD-L1. Se presente un'iperespressione di PD-L1, negli stadi patologici II-III selezionati si potrà praticare dopo 2 mesi di chemio standard, un'immunoterapia per 1 anno. Questa opzione consente di ridurre il rischio di morte di oltre il 58% e di aumentare la sopravvivenza a 5 anni del 18% rispetto alla sola chemio".
 
L'indicazione richiede quindi un aggiornamento della strategia di cura e del percorso del paziente oncologico polmonare con un ruolo chiave giocato dalle diverse figure dell'equipe multidisciplinare, compreso il chirurgo, che dovrà inserire questo nuovo passaggio nel percorso diagnostico per valutare l'eleggibilità del paziente al trattamento.
 
"Nel trattamento dei pazienti con tumore al polmone in stadio iniziale assume un ruolo sempre più centrale la Lung Unit che contribuisce alla presa in carico del paziente, in modo che si possa valutare fin da subito la fattibilità della terapia in adiuvante- sottolinea Federico Rea, Direttore Divisione Chirurgia toracica e Centro trapianto polmone del Policlinico Universitario di Padova- Oggi il percorso di questi pazienti prevede infatti un'integrazione dei trattamenti e un aggiornamento del percorso diagnostico per l'esecuzione dei test PD-L1, EGFR e ALK. La novità di atezolizumab segna proprio un cambio di passo, come dimostrano gli studi clinici per cui l'immunoterapia in adiuvante permette risultati più efficaci, indipendentemente dal tipo di intervento chirurgico effettuato sul paziente, presentando al contempo una tollerabilità al farmaco migliore rispetto alla sola chemioterapia".
 
"L'impatto delle recidive in oncologia è notevole anche in termini organizzativi per il Sistema Sanitario e poter ridurre il tasso di ripresa di malattia, in questo caso nel tumore del polmone, comporta benefici in primo luogo per i pazienti ma anche per il Sistema in ottica di sostenibilità", aggiunge Saverio Cinieri, Presidente Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica). Atezolizumab è frutto dell'impegno di Roche nella ricerca, nello studio e nello sviluppo di opzioni terapeutiche innovative per fornire trattamenti efficaci per ogni persona con diagnosi di tumore al polmone.
 
"Nel mondo ogni 14 secondi viene diagnosticato un tumore al polmone, che è uno dei più diffusi e dei più aggressivi. Quanto prima si interviene con una diagnosi precoce, quanto più si possono migliorare, con i trattamenti, gli outcome clinici e la qualità di vita dei pazienti. E' per questo che molti degli sforzi in ricerca e sviluppo di Roche si stanno concentrando proprio su questo setting, dove la chirurgia e le eventuali terapie associate hanno come ambizione la cura- dichiara Anna Maria Porrini, Direttore medico di Roche Italia- L'approvazione da parte di AIFA rappresenta un importante riconoscimento, perché rende ora rimborsabile anche in Italia la prima immunoterapia per il trattamento del tumore al polmone non a piccole cellule con espressione di PD-L1 = 50% in fase iniziale e alto rischio di recidiva dopo resezione chirurgica e chemioterapia. Accanto agli avanzamenti terapeutici, è necessario anche ottimizzare gli attuali percorsi di diagnosi e cura, nel loro complesso. Nasce con questo obiettivo il programma LungLive. Attraverso sinergie e partnership con la comunità scientifica, le associazioni di pazienti e tutti gli attori del Sistema Salute, vogliamo contribuire a ridefinire insieme il tumore al polmone, dando priorità ad alcuni ambiti di intervento quali: la prevenzione primaria, lo screening polmonare, la diagnosi precoce e l'accesso all'oncologia di precisione".
 
Il regime di rimborsabilità per atezolizumab, in classe H, nelle formulazioni da 1200 mg per infusione, soggetto a prescrizione da parte di Centri utilizzatori specificamente individuati dalle Regioni e a registro di monitoraggio, è stato stabilito dalla determina AIFA pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 19 luglio.
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di Rossella Gemma

Tra pochi giorni oltre 8 milioni di bambini e ragazzi torneranno sui banchi di scuola e riprenderanno le normali attività quotidiane: come aiutarli ad affrontare al meglio il rientro? Secondo i Pediatri di Famiglia della Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) grande attenzione va riservata alla qualità e durata del sonno, all’alimentazione e alla condivisione di quality time in famiglia.

Dormire il giusto numero di ore e bene è fondamentale per ripristinare l’energia, migliorare l’umore e avere una buona concentrazione in classe e durante lo svolgimento di altre attività come fare sport o dedicarsi a un hobby. Per questo, non bisogna sottovalutare gli effetti negativi della privazione dal sonno sull’organismo e l’importanza della regolarità nell’andare a dormire e nello svegliarsi.

“Con la scuola alle porte, è tempo per bambini e ragazzi di riprendere i ritmi sonno-veglia pre-estivi”, spiega Giuseppe Di Mauro, Segretario Nazionale FIMP per le Attività Scientifiche ed Etiche. “Il consiglio per i genitori è di anticipare la sveglia nei giorni che precedono il rientro a scuola, impostandola sull’orario di inizio delle lezioni, e prestare attenzione all’orario di addormentamento, puntando a creare una routine che possa equilibrare il riposo dei propri figli. Inoltre, dovrebbe essere vietato l’utilizzo di dispositivi come smartphone o tablet prima di andare a dormire. È ampiamente dimostrato che l’esposizione alla luce blu inibisca il processo di produzione della melatonina determinando difficoltà ad addormentarsi e una cattiva qualità del sonno. Infine, è bene ricordare che più il bambino è piccolo, più ha bisogno di dormire: si raccomandano 10-13 ore di sonno tra 3-5 anni, 9-11 ore nella fascia d’età 6-13 anni e non meno di 8-9 ore per i ragazzi tra i 14-17 anni”.

Ripristinare le corrette abitudini alimentari è altrettanto importante per aiutare bambini e ragazzi ad affrontare gli impegni scolastici e sportivi nelle migliori condizioni psico-fisiche. “È opportuno dedicare particolare attenzione alla colazione che costituisce il pasto più importante della giornata e, come tale, deve fornire il giusto apporto di tutti quegli elementi - carboidrati, proteine, vitamine e grassi - che contribuiscono a dare energia e favoriscono la concentrazione durante l’arco della giornata - aggiunge Di Mauro. Più in generale, un’alimentazione regolare deve prevedere cinque pasti al giorno (colazione, spuntino di metà mattino, pranzo, merenda e cena), preparati secondo i principi della Dieta Mediterranea, e gli orari dei pasti devono pian piano allinearsi con quelli che accompagnano la routine scolastica”.

Da non trascurare anche l’impatto positivo che piccoli momenti di condivisione in famiglia possono avere sui più piccoli: un suggerimento è quello di sfruttare la colazione come occasione di incontro per tutta la famiglia, prima di immergersi ognuno nei propri impegni quotidiani. Un ulteriore consiglio dei pediatri per preparare i ragazzi al ritorno a scuola e alleviare lo stress che questo può generare, è coinvolgerli in prima persona nell’acquisto dei materiali necessari per la ripresa delle attività scolastiche come zaino, quaderni, diario, libri.

“Come Pediatri di Famiglia, è per noi molto importante guidare i genitori nell’impostazione di una corretta routine con i propri figli, e aiutarli a creare armonia all’interno del nucleo familiare soprattutto in un momento ‘critico’ come quello del ritorno a scuola che coincide con un maggior carico di lavoro e di stress per i genitori”, commenta Antonio D’Avino, Presidente Nazionale FIMP. “In un’epoca di grandi trasformazioni dei modelli familiari, è importante costruire abitudini di vita quotidiana in grado di esercitare benefici diretti sulla salute fisica e psicologica di tutta la famiglia. Fa parte di questo percorso la condivisione di semplici ma essenziali regole per una crescita in salute come mangiare in maniera equilibrata, riposare in modo adeguato e avere uno stile di vita attivo attraverso lo sport o altre attività che tengano allenati la mente e il corpo”.  

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di Rossella Gemma

Le tecnologie immersive e l’intelligenza artificiale saranno le armi del futuro contro il tumore del colon-retto, che con 48.000 nuovi casi l’anno è il secondo tumore più frequente nel nostro Paese e anche il secondo fra i più letali con oltre 21.000 decessi l’anno (dato Fondazione Veronesi). Ma anche per le neoplasie localmente più avanzate la chirurgia, trova comunque indicazione come cura e la percentuale di sopravvivenza dopo 5 anni è di oltre il 60%, grazie ai programmi di screening, e all’evolversi delle tecniche chirurgiche con il supporto delle nuove tecnologie. Per affrontare il tumore del colon-retto, che colpisce l’ultimo tratto dell’apparato digerente e gastrointestinale, i chirurghi si affidano e si affideranno sempre più spesso al digitale. A sottolinearlo i massimi chirurghi europei e italiani, riuniti per il congresso Internazionale di chirurgia oncologica del retto organizzato dalla Chirurgia Generale dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo, concluso di recente a Verona. Gli esperti hanno spiegato che l’intelligenza artificiale può guidare la scelta degli interventi, la realtà aumentata può renderli più efficaci e il metaverso può migliorare la formazione dei chirurghi ma anche aumentare la qualità degli interventi e l’accesso dei pazienti alle cure.

L’intelligenza artificiale può essere applicata alla chirurgia del colon-retto in varie fasi prima, durante e dopo gli interventi – spiega il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale dell’IRCCS Negrar – Per esempio, può essere utile alla formazione dei chirurghi attraverso l’impiego di assistenti virtuali che possono affiancare i medici fornendo materiali didattici o anche utilizzando tecnologie di realtà aumentata che possano progettare scenari clinici per simulazioni chirurgiche che integrino immagini mediche e cartelle cliniche elettroniche. Un esempio è la radiomica in cui le immagini diagnostiche vengono analizzate dall’intelligenza artificiale che è in grado di elaborare una quantità enorme di dati prodotti da Tac e risonanza magnetica. Ciò consente di ricavare informazioni in grado di predire se un tumore possa rispondere con successo o meno a una determinata terapia, permettendo al paziente di accedere da subito al trattamento più indicato.L’analisi avanzata dei dati clinici con metodologie di intelligenza artificiale - aggiunge l’esperto - migliora la chirurgia del colon retto, riducendo per esempio il tasso di incidenza delle complicanze post-operatorie fino al 6%”.

L'intelligenza artificiale sta diventando uno strumento sempre più importante anche in chirurgia e i modelli predittivi e le applicazioni intraoperatorie stanno aprendo la strada verso una chirurgia personalizzata, sempre più spesso anche grazie all’impiego dei robot. Il progetto SARAS (Smart Autonomous Robotic Assistant Surgeon) dell’Unione europea, per esempio, sta sviluppando la prossima generazione di sistemi robotici chirurgici che consentiranno a un singolo chirurgo di eseguire la chirurgia robotica minimamente invasiva senza la necessità di un assistente chirurgo esperto. Già oggi la chirurgia robotica, con 1,5 milioni di procedure nel mondo, è ampiamente utilizzata ma i tassi di crescita medi sono del 17% annui: gli algoritmi di intelligenza artificiale sono parte fondamentale dello sviluppo della robotica perché aiutano a riconoscere tessuti sani e malati con una maggiore accuratezza e aiuteranno a rendere la robotica sempre più accurata e riproducibile, dando ai chirurghi ‘super-abilità’ nello svolgere i loro compiti. 

Senza contare le prospettive possibili grazie all’arrivo del metaverso in sala operatoria: “Con i visori dedicati che permettono di immergersi nel metaverso virtuale tridimensionale, per esempio, è possibile connettersi e condividere contenuti da qualunque parte del mondo per abbattere le barriere di distanza, consentendo quindi una maggiore equità di accesso alle cure ai pazienti che vivono anche nelle aree più remote, distanti dagli ospedali e dai centri di riferimento – osserva Ruffo -  I chirurghi nel metaverso possono poi ‘allenarsi’ su modelli virtuali specifici realizzati a partire dai dati anatomici e clinici del singolo caso, migliorando così le loro competenze senza mettere a rischio la sicurezza del paziente ma soprattutto l’accuratezza diagnostica e la qualità chirurgica; la realtà aumentata già oggi sta mostrando, sebbene su casistiche limitate, una buona capacità di miglioramento degli esiti oncologici grazie a una maggiore personalizzazione dell’intervento, all’ottimale visione tridimensionale, a un miglioramento considerevole della formazione chirurgica e può perfino, se utilizzata con i pazienti nel preoperatorio, ridurre l’ansia preoperatoria. Il metaverso potrà anche ridurre i costi di erogazione delle cure, di formazione medica e di gestione dei dati, creando anche nuove opportunità di archiviazione, condivisione e accesso ai dati stessi, ma sarà anche una preziosa occasione di prevenzione”.

Nel 2022 la Società Coreana di Colonproctologia per esempio ha avviato una campagna di sensibilizzazione sul tumore del colon-retto attraverso una piattaforma nel metaverso, rivolta ai più giovani per aumentare la loro consapevolezza sul tumore. “Un obiettivo importante, visto che l’incidenza di questo tumore aumenta di circa il 2% all'anno negli individui di età pari o inferiore a 50 anni, soprattutto nelle donne, e dell'1% all'anno in quelli di età compresa tra 50 e 64 anni, mentre diminuisce in quelli di età pari o superiore a 65 anni. I pazienti con insorgenza precoce hanno anche più spesso una malattia avanzata, il 27% ha metastasi a distanza rispetto al 21% dei pazienti più anziani: fare informazione, sfruttando anche canali digitali come il metaverso più utilizzati dalle fasce d’età più giovani, è perciò utile e necessarioNaturalmente la tecnologia resta al servizio del chirurgo al quale non può mai sostituirsi e cui spetta sempre l’interpretazione delle informazioni ricevute dai vari supporti tecnologici” conclude il dottor Ruffo.